lunedì 28 febbraio
Settantanove anni dalla morte si rinnova, intenso e fulgido, il ricordo di Dino Campana, poeta.
Era nato ai piedi dell’Appennino tosco-romagnolo, tra vigne di Sangiovese e boschi di “Marron Buono”, nella grossa borgata di Marradi, già “Capitale culturale” della Romagna-Toscana, sul fiume Lamone, il 20 agosto 1885.
Spuntato nel clima borghese di una della famiglie bene, Dino è timido, scontroso, anticonformista.
Aperto ad esigenze libertarie, mal si adegua alla monotona vita del borgo e si muove turbinosamente in un mondo, che gli diventa sempre più ostile.
Prende a fuggire in cerca di arie nuove, che plachino le sue ansie, aiutino le sue ricerche poetiche e gli rivelino la sua “Chimera”. Poi, sempre, ritorna all’ingrata terra, richiamato da un interno indomabile amore.
Tracciare il quadro biografico di un personaggio siffatto è, senza dubbio, impresa scabrosa, tanto è il travaglio, che circonda, anche platealmente, l’umano pellegrinaggio del nostro poeta, il più grande dei poeti del nostro novecento.
Amatore di donne maliarde, eteree, di luoghi incantevoli, mistici, eccitanti, di cui il nostro territorio è, anche se molto sconosciuto; strapieno di realtà umili e sofferenti, che, nella loro ignoranza, serbano grande affetto e stima al poeta.
Scopritore di luci e ombre violente, fosche, sfumate e, sempre, grande attaccamento al suo paesello, fatto di “fughe di tetti al sole, di lunghe verande fiorite, di cupole rosse, di campanili che si affollano, di commenti variopinti di archi, di larghi specchi d’azzurro”, ma anche di ostinata superficialità, di conformismo incallito, di “doctrina” insulsa ed ipocrita, sempre pronta a non capire, a condannare.
E’ profondamente spinto ad agitarsi, a mal sopportare lo sconforto crudele e a fuggire, come un perseguitato, dalla sua terra, che lo gratifica, quasi sempre, di un’aneddotica semplicistica e falsificante l’alta poetica dell’artista che fu ribelle.
Si vorrebbe, ancora oggi, da qualche parte, far passare sulla sua opera quella zavorra, ma non serve, perché la poesia cristallina di Campana esplode genialmente in un impressionante crescendo di luminosità, che abbaglia ed entusiasma i cuori e le menti con musicalità di armoniosi accenti, di colori smaglianti, di immagini paradisiache.
Tanti i cuori conquistati alla poesia campaniana.
“Son colorismo, più che altro, diceva Dino stesso dei suoi lavori originali, pregni di profonda sensibilità, che fanno presagire lo stato patologico, che si concluderà con le “tenebre” della follia, ma il cui risultato più puro proviene, – così il Cecchi -, da un incontro di realtà profondo”.
Quando la Stamperia Ravagli di Marradi, (dopo l’estenuante attesa di un giudizio di merito da parte del Soffici e del Papini, che, invece, smarrirono il manoscritto di Dino “Il più lungo giorno ”) accetta, nel 1914, di stampare i “Canti Orfici”, dietro la concreta solidarietà del Prof. Luigi Bandini e altri pochi, si apre un capitolo nuovissimo ed “irripetibile” della nostra letteratura.
L’opuscolo giallo paglierino, con su scritto il titolo in nero, goticheggiante,semplice, disadorno appare come severa condanna del vuoto futurista, incipiente preparazione di torbidi momenti.
Il messaggio campaniano, due sole parole “Canti Orfici”diretto all’anima e al cuore dell’uomo libero, sferra la grande offensiva, che porterà la netta vittoria della poesia e illuminerà di nuovi bagliori la soffertissima esistenza del Nostro, che aveva iniziato, nel 1918, l’atto finale della sua umana commedia col ricovero a Castel Pulci.
Aveva soltanto quarantasette anni, il primo marzo del 1932, quando il sipario calò sulla triste vicenda.
Silenzio profondissimo intorno e altri scempi scesero su Dino Campana e la sua opera, fatta eccezione di qualche inimmaginabile apertura.
E Marradi? Zitto!
Poi il risveglio, soprattutto, col Marradi dei giovani del dopoguerra, io fra essi, innamorati del loro “poeta maudì”, si arrivò alle basi di un “Premio Nazionale” di poesia, affidato ai prestigiosi nomi di Giorgio Saviane, Claudio Marabini e tanti altri importanti, che vedrà crescere a dismisura, la schiera dei cultori campaniani nel mondo, con tanti traduttori dei “Canti Orfici”. Un’azione continua di esaltazione di Dino Campana si propone, anche, di esaudire il grande desiderio del Poeta: quello di riposare nella sua Terra natale, anche se matrigna, desiderio irrealizzato, più per ragioni di bottega, che per nobiltà d’animo e riconoscenza. I resti mortali del Campana non sono mai arrivati nel mausoleo, semplice, ma amoroso, da tempo preparato nella sua città, così il suo spirito non ha ancora potuto acquietarsi nel “Ritorno”.
“ Nella stanza ove le schiuse sue forme dai velari della luna io cinsi un alito tardato: e sul crepuscolo la mia pristina lampada instella il mio cuore vago di ricordi ancora……
L’estate avrà purificato i cieli.
Gli arabeschi chiuderanno
un sarcofago
sotto ai cieli fosforei,
Il miracolo sublime
Io sarò ritto tra i ceri
Incoronato in fondo
tra le navate trionfali
sul popolo enorme prostrato
davanti la grande scalea
Svanente tra le brume lunari
Davanti l’infinito
della forza e del sogno”. “Canti Orfici”
Solo così finirà il torturato viaggio umano del “più povero dei Poeti portante una ricchezza indimenticabile”.
Renato Ridolfi