Sabato 10 dicembre si terrà la presentazione del libro di Rodolfo Ridolfi edito dal nostro giornale: Domenico Vanni sovversivo per la libertà 130 pagine. Riportiamo la prefazione del Professore di Diritto Costituzionale Marco Villani
Un libro-fotografia, un libro-pellicola. Attraverso la storia dell’eroe
semplice Domenico Vanni, sembra di vederla – non come una cartolina
polverosa ma con i colori della vita reale – quell’Italia che usciva
dalla guerra e si affacciava verso il futuro. Il Presidente Carlo Azeglio
Ciampi ha di recente ricordato la gioventù italiana di quegli anni, che
non aveva nulla di materiale ma ogni giorno si risvegliava con la passione
e l’energia di chi vuole ricostruire. Quelle generazioni ritornano
protagoniste nelle pagine di Ridolfi, pagine mai didascaliche, intrise di
sentimenti eppure solide e documentate. Per certi versi, leggere questo
volume è come immergersi in un film di Monicelli o di Rossellini,
in una narrazione di Cassola.
Ma il “film” parte molto prima del dopoguerra. C’è la leggerezza
incosciente di un Paese che spianò la strada al regime e ne subì
passivo le violenze e gli errori. Ci sono quei ragazzi italiani che attraversarono
il fascismo come una malattia lunga e dolorosa ma mai
mortale, perché la loro fede nella libertà era più forte e un giorno
avrebbe vinto. Poi c’è la guerra civile, le atrocità, la ricostruzione vista
non in astratto ma nella vita quotidiana dei nostri borghi, distrutti dalle
bombe eppure vitalissimi, quasi euforici, ubriachi di democrazia. E c’è
il dopoguerra, la ripresa, la crescita, il cambiamento politico e sociale.
Ma nel libro di Ridolfi c’è anche altro, qualcosa che scotta e
coinvolge subito il lettore: una ricerca di verità che costringe a infrangere
molti miti, molta di quella retorica sulla Resistenza che per decenni
ha inchiodato l’Italia ad una finzione. Da un lato c’era il Male del
fascismo oppressore, dall’altro il Bene assoluto della Liberazione. La
Liberazione fu una grande prova di orgoglio e di riscatto nazionale. Ma
fu anche la vicenda di un popolo che – magari proprio nella Toscana
della vivacissima Marradi o nell’Emilia-Romagna, regioni prima così
nere poi d’incanto così rosse – cambiò bandiera per puro opportunismo.
Fu, soprattutto, la durissima e sorda lotta fra i liberatori, che
proseguì quella combattuta nei tempi dell’esilio e dell’antifascismo
letterario ed epistolare. Se negli anni ’20 e ’30 Matteotti, Turati,
Gobetti e Rosselli erano fra i principali nemici di Gramsci e di Togliatti,
un attimo dopo aver sconfitto il nazifascismo quel conflitto si ripropose
con forza, seppur celato dal trionfalismo di un Paese in festa e dalla
geopolitica che voleva l’Italia in ogni caso “occidentale” e “americana”.
Ben poco emerse, quindi, di un duello cruento che si svolse senza
nessuna ribalta, come sepolto e dimenticato. Ben poco restò, nella
memoria collettiva, di quel sangue che – per avvicinarci alla formula
usata da Pansa, “Il sangue dei vinti” – fu il sangue innocente dei “vincitori”:
i socialisti riformisti in primis, ma anche i liberali e i cattolici,
che avevano vinto anch’essi la guerra alla dittatura ma furono presto
schiacciati dall’organizzazione militare comunista. Una cultura totalitaria
non dissimile da quella appena sconfitta, anzi certamente più feroce
e determinata. “Mio nonno fu tanto antifascista quanto
anticomunista”, dice Rodolfo Ridolfi di Domenico Vanni, e si coglie nelle
sue parole un orgoglio trattenuto troppo a lungo, perché nell’antifascismo
di maniera i due totalitarismi erano visti come sideralmente
distanti. Invece, a creare questa separazione fu solo la tracotanza dei
più potenti fra i vincitori che, come sempre accade, riscrivevano la
Storia a loro piacimento.
La vita di Domenico Vanni, che per l’autore è il punto di incontro
di “ricordi, convinzioni ed emozioni”, va quindi oltre la biografia e
diventa l’occasione di riscoprire ciò che siamo stati davvero. Per capire
cosa abbiamo conquistato ma anche cosa abbiamo rischiato; per
capire che nel nostro DNA ci sono l’eroismo e la passione per la libertà
ma anche la tendenza alla violenza protetta dal potere e il cedimento
alla demagogia di moda in quel momento. Nella storia di Vanni c’è
la grandezza della passione dei socialisti e, insieme, il dilemma delle
loro divisioni, delle riappacificazioni sempre troppo labili. Dagli anni di
Parigi a contatto con Nenni, Rosselli, Colorni, Amendola all’incontro
fulminante con il giovane Giuseppe Saragat, che – scrive Ridolfi – “abbracciò
il filone socialdemocratico nordeuropeo, era antisovietico ed
ebbe su mio nonno un’influenza straordinaria e ne segnò il credo
politico, allontanandolo con dolore da Nenni e Pertini che mio nonno
riabbraccerà solo al Congresso dell’unificazione socialista dell’Eur
nell’ottobre del ‘68”. Cinquant’anni di grande storia politica, insomma.
Ma Vanni è stato soprattutto un uomo autentico, carico di virtù e vizi
(lo scrisse lui stesso: “Nella vita privata ed in certi passaggi della mia
esistenza ho fatto il disastro”… Ma fu troppo severo). Lo scalpellino con
la licenza elementare sempre allegro e sempre testardo (il “testone
pericoloso” delle veline fasciste). Il paesano dalla vita semplice fatta di
bicicletta e di amici che restano tali anche dopo il campo di concentramento.
Il passionale che rischia la galera per concepire un figlio
durante una fuga dal campo di battaglia della prima guerra mondiale.
Il politico locale che ai primi anni ’20 prende le botte dai fascisti ma
non si scompone e va in consiglio provinciale a sbeffeggiarli (“Chiese
la parola, ma il presidente Giulio Masini obbiettò che il suo intervento
non era all’ordine del giorno. Lui prontamente replicò: Neppure le
botte che ho preso erano all’ordine del giorno”. Difficile dipingere meglio
la tempra del testone socialista Vanni). L’esule che a Parigi per 20
anni, dal ‘23 al ‘43, fece l’imprenditore, restando però sempre il militante
politico in attesa che il suo Paese rivedesse il sole. L’antifascista
che rientra in Italia e salva alcuni aviatori americani, viene torturato
dai fascisti, viene internato a Mathausen, “da dove solo un prigioniero
su dieci è uscito vivente”, come si legge su una sua biografia dell’epoca.
L’uomo orgoglioso che torna in Italia dopo aver sconfitto la
barbarie: “Mi sembra un sogno, paragonabile alla gita fatta da Virgilio
quando visita l’Inferno e il Purgatorio, però mi è riservato l’onore di
rientrare nel Paradiso… Torno invecchiato e canuto per le sofferenze,
ma ritto sui nervi e più vivo che mai per la vittoria in pugno”. Il politico
socialdemocratico del dopoguerra, un’era di conquiste civili e di
conferme ma anche di solenni delusioni: al congresso PSI-PSDI di
Marradi del 1968, stanco delle troppe correnti, Vanni si mise a
canticchiare: “Un esercito diviso la battaglia perderà”. Quante avventure,
quanti capitomboli. Ma resta sempre lui. Una figura bella e coerente
di riformista, uno per cui il “partito dei deboli” era la seconda
pelle; quindi, spesso, un uomo apparentemente molto solo. Dico “apparentemente”
perché solo non è stato mai. Con lui c’erano ideali, incrollabili
e amici sinceri – ricorda Beppino Ridolfi tanti anni dopo: “Mi viene freddo
a pensare a come eravamo amici, io ventenne alla macchia nel ’43
perché era uscita la chiamata di leva della Repubblica di Salò, lui
cinquantenne che mi raccontava la sua vita, i suoi nascondigli, le sue
avventure”. Ma c’era anche, in un certo senso, tutta la gente italiana.
Perché gli italiani hanno una loro peculiarità, una forza interiore che
si manifesta nei momenti decisivi. Anche questo affiora dal libro. È
come se, tutti insieme, si riuscisse ad essere migliori che presi da soli,
come individui. Tutto quanto oggi abbiamo di positivo e di prezioso lo
dobbiamo ad una volontà collettiva che in alcuni momenti importanti
ha saputo cogliere le opportunità di progresso e di libertà, e fissarle
nel suo destino. Certo, il popolo dell’Ottocento che, da sempre succube
degli stranieri, coniò il famoso detto “Franza o Spagna basta che se
magna”, non è certo scomparso del tutto. E così il popolo acclamante
sotto ogni balcone di ogni possibile Piazza Venezia. Ma ci sono sempre
stati tanti Domenico Vanni che hanno testimoniato valori sentiti e
limpidi – riforme sociali, diritti civili ed economici – e che hanno aiutato
l’Italia a non sbagliare nelle scelte che contano: “Carissima figlia,
nella vita non si vive solo di pane – scrisse Domenico alla mamma di
Rodolfo Ridolfi – ma anche di soddisfazioni, e l’andata al Governo del
Socialismo intero è per me un Trionfo”. Proprio così, con le maiuscole.
Chissà che direbbe, Domenico Vanni, di questi tempi di crisi economica
e soprattutto morale del nostro Paese. Forse, con il suo tono
di toscano di Romagna senza dogmi e senza chiesa, lui che fu capace
di sopravvivere ai fascisti, ai nazisti e ai comunisti per poi morire quasi
per caso, lui che nel ricordo di suo nipote Rodolfo è un eroe provvisto
di “ironia e lucida follia”… forse lui riuscirebbe a rincuorarci: cari
connazionali, non mollate, non vi deprimete, per noi italiani ogni crepuscolo
è sempre e solo provvisorio.