Blog Biblioteca Marradi 93 Uomo e valore di Luigi Bandini: Come la politica ha mangiato la cultura

Uomo e valore
domenica9 settembre
Luigi Bandini, filosofo marradese, nel 1942, in pieno regime fascista, pubblica per l’editore Einaudi “Uomo e valore”, nel capitolo II “umana sostanza”, condanna l’umana degradazione compiuta in nome della “pretesa superiore dell’ente collettivo” che pretende di trasformare in gregario l’essere umano nel tentativo di ridurre l’individuo “a mero componente, ad una unità di una serie, di annegamento dell’individualità”. Mi piace ricordare come il libro di Bandini, che scrisse anche “Dalla massa all’individuo” si meritò il plauso di Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Oggi la denuncia di Luigi Bandini resta di grande significato. Quante volte di fronte all’assunzione di responsabilità in direzione dell’etica e del diritto preferiamo ignorare il nostro destino attraverso distrazioni che aiutano a ridurre il nostro senso di isolamento, per esempio il “sesso, droga e rock & roll”. Oppure ci buttiamo nel lavoro o in un hobby, oppure nel conformismo, nel vivere come vogliono gli altri. Sicuramente possiamo ottenere una sensazione di immortalità collettiva attraverso l’azione comune e trarre conforto dal calore della massa, ma il costo è elevato: diventando parte della folla, il nostro io si dissolve prima ancora di morire. Harrington ha descritto tutto ciò come il “morire prima di morire” e il “suicidio a rate. Tragicamente, questo sacrificio dell’io razionale distrugge anche la nostra unica possibilità di salvezza. Alcuni reagiscono con furore. Condannati ad una troppo breve apparizione sul palcoscenico della vita, individui disperati adottano metodi sempre più assurdi per innalzare monumenti alla propria esistenza. Il dirottatore, il terrorista, il Kamikaze. A bene osservare nel rapporto fra cultura e politica, fra religione e politica, non ci si trova di fronte ad una opposizione, ma ad una coesistenza fra termini, al punto da poter ipotizzare un’interpretazione culturale della politica ed addirittura religiosa della politica. Nei Vangeli non si trova infatti né la condanna della realtà politica e neppure di quella economica. La fede autentica non si pone mai come rassegnazione, ma al contrario coinvolge il singolo pienamente nella vita quotidiana, al di là, però, di qualsiasi fondamentalismo. In questo orizzonte si colloca anche l’esperienza del Cristo, i cui insegnamenti si radicano nella cultura politica dell’Antico Testamento, a partire da quel «siate fecondi e moltiplicatevi» della Genesi che garantisce libertà politica ed uguaglianza a uomini e popoli. Infatti, più che di politica istituzionalmente ed ideologicamente intesa, nell’Antico Testamento ciò che interessa è il popolo, quale superamento della singola autocoscienza, morte dell’io e, come tale, realizzazione dell’ agàpe. Quest’ultima viene a porsi così nei termini di una vera e propria alleanza politica col Cristo e col prossimo. Si legge nel salmo 119, 10:«Sono straniero sulla terra; non mi nascondere i tuoi comandamenti» […] La differenza tra l’io e il mondo, si prosegue come obbligazione verso gli altri. Eco del dire permanente della Bibbia.

Giovanni Raboni

In quest’ottica politica culturale e cultura politica sono facili da scambiare, ma notevolmente diverse. Contro la politica culturale punta spesso il dito la sinistra che lamenta la scarsità dei mezzi destinati alla cultura strutturata e militante, che ammanta la politica, fine a se stessa, di involucri intellettualoidi e di falsi valori. I moderati prendono invece di mira spesso l’incapacità di focalizzare la cultura politica del centrodestra soprattutto in Italia ed in Europa. La differenza è sostanziale perché nel secondo caso, cultura non rappresenta soltanto un complesso di beni materiali e intellettuali, ma un paradigma di significati condivisi che si fa valore morale e prassi civile e sociale. La politica culturale è anzitutto una politica, e con il metro della politica va giudicata: valutando la capacità di mirare al bene comune, di gestire la complessa negoziazione tra gli interessi in gioco a vantaggio del maggiore numero possibile di attori coinvolti. In ambiti di così difficile gestione, come in generale nell’esercizio politico, l’abilità di raccogliere in una sintesi più alta esigenze trasversali rispetto agli schieramenti può diventare un fattore critico di successo. Nell’espressione cultura politica è invece la cultura a guidare. In questo contesto ha valore la capacità di alimentare un terreno condiviso, sul quale si innesta un’azione politica destinata a portare frutti duraturi. La sinistra riduce la cultura a strumento di propaganda per l’omologazione politica e punta all’ l’occupazione militare delle posizioni chiave dell’opinion-leading il campo dei riformisti moderati liberale offre, quando ci riesce luoghi di confronto per il garantismo, la deregulation, il riformismo istituzionale, la difesa dei valori identitari dell’occidente cristiano in una parola il liberalismo. Oggi la cultura per battere un colpo deve moltiplicare l’interesse sul dibattito prioritario sulla crisi dell’Occidente, mostrando con chiarezza che non bisogna cedere ad un falso progressismo, ad un modernismo relativo che vorrebbe liberarci da valori “obsoleti” in nome di una modernità coincidente con lo snaturamento e la triste omologazione planetaria di massa . Esiste invece una modernità autentica, che senza dimenticare le radici guarda al futuro. Ne è protagonista l’Io, un individuo libero, nel pieno dei suoi diritti, ma non isolato: è attraverso le relazioni fondamentali – la famiglia, la proprietà, il mercato – che egli costruisce la società civile. Procedere verso la modernità vuol dire sostenere lo sviluppo: impossibile senza rinnovare un patto produttivo, anziché scellerato, tra finanza e impresa, nell’ottica di un liberismo ben temperato. Ancora, modernità resta una parola vuota senza democrazia; occorre perciò all’interno appoggiare le riforme istituzionali, e all’estero promuovere l’evoluzione democratica, unica garanzia di stabilità internazionale e progresso. Così intesa, modernità spicca tra le parole chiave da diffondere e proporre all’area moderata e liberale. Concludendo il giusto rapporto tra intellettuali e politica, tra uomini di pensiero e partiti, tra operatori culturali e coalizioni politiche dovrebbe definire il legame tra la elaborazione delle idee e la prassi della politica. La politica sembra essersi mangiata la cultura perché con la sinistra è automatico che il rapporto si sviluppa secondo i canoni della pura strumentalità e della subordinazione, di una simbiosi o di un totale appiattimento delle ragioni della cultura a quelle della politica. Nel contesto di questo quadro generale, resta sullo sfondo il pesante condizionamento di una serie di pregiudizi, di equivoci e di complessi di inferiorità sui quali si è giocata la cosiddetta “egemonia culturale della sinistra” “talmente diffusa e soprattutto, si direbbe, così profondamente radicata, da trasformarsi nell’immaginario collettivo in una sorta di luogo comune metastorico” – secondo la quale i cosiddetti intellettuali sono “tutti di sinistra”.

Il filosofo Luigi Bandini

Giovanni Raboni un intellettuale di sinistra che si era schierato pubblicamente con Rifondazione Comunista ha avuto il merito di andare alle radici del luogo comune e di dimostrare che è del tutto infondato: “molti, anzi moltissimi tra i protagonisti o quanto meno tra le figure di maggior rilievo della letteratura del Novecento appartengono o sono comunque collegabili a una delle diverse culture di centro-destra che si sono intrecciate o contrastate o coesistite nel corso del ventesimo secolo”. Alcuni nomi: Barrés, Benn, Bloy, Borges, Campana, Céline, Croce, D’Annunzio, T.S. Eliot, C.E. Gadda, Hesse, Ionesco, Jünger, Landolfi, Thomas Mann, Marinetti, Montale, Palazzeschi, Papini, Pirandello, Pound, Prezzolini, Tomasi di Lampedusa, W.B. NEL MONDO, Un elenco incompleto, del resto, e limitato al piano letterario. Basterebbe spostarsi, anche sul piano filosofico, politologico, antropologico, cinematografico per vedere l’elenco estendersi a dismisura. Raboni cita anche i tanti transfughi della sinistra che, folgorati dalla rivelazione dei disastri delle utopie giacobine e leniniste, hanno poi finito con l’attestarsi su posizioni di anti-sinistra tra questi: Gide, Hemingway, Maulraux, Orwell, Silone, Vittorini… Pasternak, Solzenicyn

Rodolfo Ridolfi

Inaugurazione della Associazione Nazionale Carabinieri di Marradi

sabato 8 settembre
La Sezione Carabinieri di Marradi inaugura la nuova sede che l’Amministrazione Comunale ha messo a disposizione dei carabinieri marradesi in congedo.
In occasione dell’inaugurazione ufficiale della sede dell’Associazione Nazionale Carabinieri di Marradi che l’Amministrazione Comunale ha messo a disposizione in Via Razzi al n.51, nel secondo piano del palazzo che ospita il Centro Culturale Dino Campana ed il Centro di studi sul Castagno, lo storico edificio che ha ospitato per decenni le scuole elementari “G.Pascoli”, l’Associazione Culturale Opera In-Stabile ha donato al Presidente, Fabio Ettore Albonetti, due stampe riprodotte in pergamena. Le stampe, consegnate dal presidente onorario Rodolfo Ridolfi e dal presidente Emilio Betti, sono a colori e raffigurano l’Arma dei Reali Carabinieri – 1814 e Il Carabiniere Reale a cavallo con carabina” in grande uniforme del 1818, di Giuseppe Stagnon.

Nel biglietto che accompagna il dono si legge: “Il Collegio Artistico di “Opera In-Stabile” con amicizia e affetto per “L’Arma” che ha rappresentato e rappresenta, con orgoglio, nel mondo la nostra storia, seguono le firme di Barbara Betti, Giacomo De Simonis, Erika Capanni, Diego Rodriguez, Laura Anne GorKoff e Monica Pacchioni

Blog Biblioteca-Archivio Marradi ’93 .8 settembre- a 69 anni dall’armistizio l’Italia è sempre lacerata perché una sua parte si considera detentrice della verità

venerdì 7 settembre
Quelle fratture e divisioni che hanno (dis)fatto l’Italia in un bel libro del 2009 di John Foot
La verità è che l’Europa di oggi è poca cosa , non ha grandi leader, non esiste democraticamente è profondamente spaccata non esprime una politica, ed è subalterna agli interessi del sistema finanziario e bancario e soprattutto fa fatica a tenere il passo con i grandi paesi emergenti. Nessuna data si presta meglio di quella odierna – l’8 settembre, 69 anni da quando Pietro Badoglio, con voce sobria, annunciò l’armistizio tra l’Italia e gli angloamericani. Sembra di ascoltare certe conferenze stampa di questi giorni che lasciano intravedere la resa della sovranità popolare al commissariamento delle democrazie europee al governo internazionale della finanza e delle banche più forti.

In questo giorno se penso alla Francia mi viene in mente Petain, se penso alla Germania l’immagine che mi appare è quella di un paese velleitario ma che rischia una nuova epocale sconfitta mondiale, se penso alla Spagna riaffiorano alla mente i fantasmi della guerra civile. Ma il nostro Paese, forse per la sua relativa storia unitaria ha sicuramente il primato della rissosità e del paradosso con un governo che vorrebbe essere sobrio ma in realtà è solo grigio che se lo osservi nel suo complesso sembra una riunione periodica di direttori di filiale di banca e burocrati di modesto profilo. Pesano ancora e, dopo una stagione di riaccese speranze, tornano le divisioni che hanno accompagnato la storia della nostra bella patria. L’Italia continua a compiacersi delle sue divisione e non fa nulla per superarle. E’ un Paese dove gli sconfitti dalla storia continuano a proporsi come il futuro del Paese ed i depositari della verità. E’ soprattutto la sinistra italiana erede del comunismo e del catto-comunismo pauperista a coltivare la pretesa d’essere depositaria della verità e degli ideali più alti e nobili, così imponendo verità a senso unico. Ed il mondo degli italiani liberi finisce per subire, intrappolato com’è a coltivare la polemica nord sud, l’eredità d’un Risorgimento contestato e logiche di campanile fuori tempo.

In questo quadro mi sento di suggerire una lettura: Fratture d’Italia un libro del 2009 edito da RIZZOLI, un saggio di John Foot , un inglese che ha riscoperto ciò che tutti gli italiani sanno da tempo. “…Litighiamo sempre, e da quando c’è la televisione litighiamo come non mai. …””..Nel luglio del 1944, a San Miniato, mentre l’esercito tedesco si sta ritirando e quello alleato risale la penisola, più di cinquanta civili vengono massacrati all’interno della chiesa del paese: strage nazista o una bomba lanciata dagli americani? E poi: i campi di concentramento fascisti, le foibe, l’emigrazione, il terrorismo… L’elenco degli episodi controversi che costellano la storia dell’Italia unificata potrebbe estendersi all’infinito: dall’eccidio delle Fosse ardeatine alla strage di piazza Fontana, dagli attentati negli Anni di Piombo alla morte di Carlo Giuliani. Ognuno di questi eventi ha generato una memoria pubblica frammentata e belligerante, fatta di verità tutte assolute e tutte in contrasto tra di loro che si esprimono nei monumenti, nelle targhe, nei memoriali destinati a far trionfare l’una o l’altra versione.

“Secondo John Foot, fatta l’Italia e gli italiani, non siamo mai riusciti a fare del tutto i conti con il nostro passato, a causa della perenne fragilità dello Stato e delle tante guerre civili che ne hanno segnato la storia sin dalla nascita della nazione nel 1860. Questo viaggio nella memoria divisa del Paese porta Foot tra i monumenti alterati e nascosti nel tempo, tra le lapidi criticate e danneggiate, tra le commemorazioni contestate, ma anche faccia a faccia con le assenze e gli assordanti silenzi di quello che non è stato ricordato, che è stato rimosso. È un viaggio che lo storico affronta indossando anche i panni del reporter e del detective, per riuscire a scavare nelle tante microstorie che hanno determinato la visione pubblica del passato. E ci restituisce un’Italia fragile, incerta sulla propria identità, in lotta con se stessa. Ma ben lontana dal costituire “solo un’espressione geografica”.

R.R.

L’Antico Ospedale “San Francesco” a Marradi eretto “..per la pietà specialmente dell’illustre concittadino Angiolo Fabroni”

giovedì 6 settembre
Sulla storia dell’Ospedale di San Francesco le fonti non sono numerosissime e prevalentemente sono riconducibili alla documentazione rimasta, non ultima la data certa della sua fondazione. Il documento più vecchio data infatti 1819. Da alcuni brani dello Statuto originale contenuti nel fascicolo “Progetto di Statuto Organico per l’autonomia dello Spedale”.si legge “L’Ospedale di Marradi eretto per la pietà specialmente dell’illustre concittadino Angiolo Fabroni con Sovrano Rescritto del 21 dicembre 1795 porta il nome di San Francesco. Ha per iscopo di accogliere tanto i malati acuti che i cronici, come pure gli affetti da contagio, che saranno segregati colle debite cautele dagli altri degenti [..]”.
In seguito i cronici non vennero più ammessi: “Si riceverà nello Spedale di San Francesco di Marradi quel numero di malati dell’uno e dell’altro sesso, che sarà di tempo in tempo compatibile con le forze ed assegnamenti del Luogo Pio, da fissarsi annualmente dall’ Imperiale e Regia Deputazione Centrale dietro il resultato dei bilancj di previsione, ben inteso però che sieno eccettuati i malati cronici e quelli
affetti da malattie cutanee”.
L’Ospedale aveva come missione principale l’accoglienza gratuita dei soli cittadini di Marradi, anche se accettava come pazienti anche gli “estranei al comune, che trovandosi di passaggio o temporaneamente vi si ammalassero, salvo il rimborso della spesa” e i militari, ai quali vennero in seguito equiparati tutti i dipendenti statali, a retta giornaliera. Anche i marradesi non indigenti potevano essere ammessi previo pagamento di una retta o della metà dell’importo in base a due fasce di reddito certificate dal Sindaco. L’amministrazione venne da subito affidata alla locale Congregazione di Carità che “sovraintende al regolare andamento e delibera in tutti gli atti e contratti che interessano il Pio Stabilimento, adotta le misure opportune pel buon andamento del servizio e risolve le questioni che si presentano nei casi speciali”. istituita: 1) Per amministrare gli istituti ed i beni che le sono confidati per erogarne le rendite e le oblazioni secondo le norme stabilite dalla legge, dagli statuti, dalle tavole di fondazione o dalla volontà degli oblatori. 2) Per esercitare i doveri di patrocinio e di assistenza verso i poveri, col promuovere i provvedimenti
diretti a fornire, con la nomina di un tutore o curatore, di rappresentanza legale i derelitti che ne siano privi, col procurare loro assistenza e provvedere ai loro bisogni in caso d’urgenza”.

La Congregazione si componeva di un Presidente e otto membri, tutti senza assegnamento, che rimanevano in carica per quattro anni, e non potevano essere rieletti per più di una volta consecutivamente. Loro compito principale, oltre all’amministrazione dei propri beni e rendite, era quello di provvedere all’amministrazione dei vari Istituti cui faceva capo, promuovendo al bisogno la modificazione dei loro Statuti e Regolamenti, e procedendo all’erogazione delle rendite e delle oblazioni secondo le volontà dei donatori. Inoltre, tramite un proprio rappresentante, la Congregazione partecipava alla stipulazione degli atti pubblici. Il Presidente aveva poi alcuni incarichi specifici fra i quali quelli di presiedere e dirigere le adunanze, curare l’esecuzione delle deliberazioni, dirigere la corrispondenza ufficiale, curare la regolare tenuta degli inventari e dei registri e rappresentare la Congregazione nelle cause.Provvedeva inoltre a far rispettare l’osservanza delle leggi e dei regolamenti degli istituti amministrati, procedendo alle verifiche di cassa ed alla compilazione dei relativi verbali. Responsabile unico del Pio Luogo di Cura era un Presidente, detto anche Rettore, (una sorta di direttore generale, amministratore delegato) senza stipendio che, dal 1825, veniva scelto e nominato dal Granduca all’interno di una terna di nomi presentata dal Magistrato Comunitativo. Secondo il “Regolamento provvisorio del 1825 Il Rettore provvedeva alla redazione dei registri dei malati, aveva la responsabilità delle locazioni, la sorveglianza sull’operato dei medici e la provvista dei materiali all’ingrosso. A lui spettavano inoltre il compito di tenere in consegna, mediante opportuno inventario annuale, biancheria, mobili, armamentario chirurgico e ogni altra cosa di pertinenza dell’Ospedale o di uso dei malati e la custodia dell’archivio. Sull’operato del Rettore aveva funzioni di controllo il Magistrato Comunitativo, cui spettava il compito di creare censi e vendere o affittare immobili. Il Gonfaloniere del Comune, valendosi delle facoltà accordategli dalla legge del 16 febbraio 1816, poteva, a sua discrezione, prendere cognizione dello Stato dell’amministrazione e del servizio sanitario. Il Rettore era assistito e coadiuvato da uno scrivano che aveva il compito di redigere le scritture contabili, annualmente trasmesse alla Deputazione Centrale per l’approvazione e dal Camarlingo Comunitativo che svolgeva il ruolo di cassiere dell’Ospedale e che aveva anche il compito di effettuare tutti i pagamenti dietro presentazione dei mandati, rilasciati dallo scrivano. Al Rettore spettava infine anche la nomina del custode, che doveva essere “ammogliato e tanto esso che la moglie, i quali si sceglieranno di un’età matura, dovranno essere animati dal più puro spirito di religione, carità, onestà, attenzione e buona volontà nel disimpegno delle loro funzioni”. Il custode e la moglie, eseguendo fedelmente le prescrizioni del Rettore, avevano il compito di provvedere all’occorrente per i malati, prestare il servizio di cuochi, provvedere alla biancheria, alla legna, al carbone e pulire le stanze dell’Ospedale. In seguito essi furono affiancati da cinque inservienti, addetti alla cucina ed al bucato, da un barbiere e da un becchino. Le necessità spirituali dei ricoverati e dei moribondi venivano adempite da due sacerdoti cui spettava anche la celebrazione delle funzioni funebri. Vi erano infine due medici e un chirurgo (o direttore sanitario), originari di Marradi, che non solo dovevano verificare, tramite i certificati presentati, che “la qualità delle malattie” di chi chiedeva di essere ricoverato fosse ammissibile, ma soprattutto erano tenuti a prestare ai malati l’assistenza necessaria visitandoli due volte il giorno, prescrivendo le cure e controllando la qualità del vitto e dei medicinali. Erano inoltre di loro esclusiva competenza la decisione di dimettere i pazienti ritenuti guariti o incurabili e l’aggiornamento della vacchetta delle diete. I medicinali prescritti venivano provvisti da una o più farmacie, fra le più fornite del comune, e annotati su una speciale vacchetta. Annesso all’Ospedale si trovava un “Ricovero di mendicità” dove venivano ospitati alcuni vecchi inabili al lavoro, che dovevano essere esclusivamente di sesso maschile e in numero non maggiore di sei. Il patrimonio di tale ricovero, voluto da Francesco Fabroni Bassani, veniva amministrato separatamente.

Bibliografia: Archivio dell’Ospedale San Francesco a Marradi 1795-1943
A cura di Ilaria Pagliai