sabato 27 maggio
Il Circolo I.P.LA C. (Insieme Per La Cultura), organizzatore dell’ VIII Edizione 2013 del Premio Letterario Nazionale “Voci-Città di Abano Terme”, ha comunicato ufficialmente che il racconto “L’ombra della luna” di Gianna Botti ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria che Le verrà consegnato il 25 Maggio, presso la sala delle feste dell’Hotel Alexander ad Abano Terme. I partecipanti erano più di 500 alcuni anche con più opere in concorso. Il racconto premiato costituisce una specie di test al libro che attualmente Gianna Botti sta scrivendo, quindi l’apprezzamento del racconto è importante per il prosieguo del romanzo: personaggi fittizi su sfondo reale.(Lo stesso test, diverso per forma e contenuti, Gianna Botti lo aveva realizzato col racconto “Cuore Negato” per capire come poteva essere ricevuto il suo primo libro di successo “Email a quattro zampe” ). Adesso i riconoscimenti per la scrittrice Marradese sono cinque. Il Premio speciale della giuria è commentato così da Gianna Botti “….forse questo premio è quello dalle implicazioni maggiori…volevo uscire dagli schemi del solito racconto affrontando temi storico-sociali crudi nella loro tragica drammaticità. Ed ecco i protagonisti in quel Rwanda dilaniato da guerre tribali ( Tutzi/ Hutu) a metà degli anni novanta…”. In esclusiva pubblichiamo il racconto premiato “L’ombra della Luna”
L’ombra della luna
Kigali, Ruanda, 15 Aprile 1994
Keyla si svegliò di soprassalto: qualcuno in strada gridava. A tastoni cercò la lampada
– Non accendere! – intimò la voce di Jodà in piedi davanti alla finestra.
– Schit…miliziani Hutu… perlustrano le abitazioni… Prendi il bambino, nel sottotetto, presto!-
In un attimo, Keyla gli fu accanto – Non ti lascio! Hai sposato una Tutsi, questo fa di te…-
-L’uomo più felice al mondo.- mormorò abbracciandola
Per qualche secondo rimasero stretti, poi altre grida, questa volta terribilmente vicine, li scossero. Jodà la staccò da sé – Vai!-
La fronte china, Keyla era ormai sulla porta, quando lui la trattenne -Se dovessi seguirli al comando, chiama Qebir, saprà cosa fare.-
Keyla prese il bambino addormentato, rifugiandosi nel sottotetto, Appena in tempo: passi cadenzati, e la voce di Jodà si levò ferma – Questa è una casa Hutu! –
Rabbiosa, una seconda la sovrastò – Consegnaci la cagna Tutsi!-
Terrorizzata, Keyla sprangò la botola: l’oscurità divenne totale, opprimente. Un tuono improvviso la fece sobbalzare, portò le mani alle orecchie del piccolo, se avesse pianto..! Nel fragore del successivo, le parve d’udire un lamento. La pioggia martellava le tegole, nessuna voce, forse il temporale le aveva lavate via. Scalpiccio sulle scale, no, erano ancora lì. Sonore imprecazioni, porte sbattute, vetri infranti e d’improvviso il silenzio. Acquattata nell’ombra come un animale braccato, girava gli occhi attenta al minimo rumore. Interrotto dall’ansimo del proprio respiro, il silenzio rimaneva assoluto, totale. Deglutì e facendosi forza, lasciò il nascondiglio.
– Jodà…Jodà…- Chiamò piano fermandosi ad ogni passo. Nessuno rispose. Col cuore martellante, girovagò per la casa devastata continuando a chiamarlo, finché in salotto lo vide. Circondato da un liquame scuro, Jodà giaceva prono sul pavimento. Senza fiato, Keyla indietreggiò. Non erano di freddo i brividi che la scuotevano; inebetita fissava il marito immobile nel respiro opaco dell’alba che muoveva le tende. Se pianse non ne ebbe coscienza. Un licaone ululò in strada, come un’automa scostò la tenda: ciò che vide le ferì gli occhi senza che il cervello cogliesse l’orrore della scena. Con l’impotenza degli incubi, subiva la visione incapace di staccarsi dalla finestra. Adesso i licaoni erano quattro. Ringhianti si disputavano un corpo dall’altra parte della strada. D’improvviso la mente recepì, soffocando un grido, si precipitò al telefono. Pochi interminabili squilli, e una voce nota risuonò nella connetta – Le notizie rimbalzano impazzite. Sia lodato l’Onnipotente, siete vivi!-
– Solo io e il bambino… –
– Non muoverti. Arrivo! –
Qebir riagganciò, fece una telefonata e si mise al volante. Moderando l’andatura per non attirare l’attenzione, attraversò il centro di Kigali dove la ferocia Hutu aveva squarciato gole, vetrine e portoni. Gruppi di miliziani presidiavano gli incroci, ignorandoli, tirò dritto, ma ad un posto di blocco dovette fermarsi. Il passaporto saudita fu provvidenziale. Annotata la targa sul taccuino, il mercenario sollevò il macete segnalando così di rimuovere la transenna. Qebir s’impose di non guardare ai lati della strada di quello che fino a poche ore prima era un lindo quartiere residenziale. L’odore di morte impastato al sentore di terra bagnata lo avvolse come una cappa.
Rincantucciata in un angolo del salotto, Keyla allattava il figlio. Immobile sulla porta, l’ingegnere minerario dell’Arabian International Company rifletteva: passare i posti di blocco non sarebbe stato facile, i tratti somatici della donna erano inconfondibili. Con un semplice gesto l’invitò a mettersi in piedi, e staccata una tenda, gliela lasciò cadere sul capo fermandola intorno alla vita con il cordone a nappina – Non toglierla per nessun motivo. Se dovessero fermarci, lascia parlare me. –
Incapace di qualsiasi reazione, lei lo lasciò fare.
Dopo aver coperto il corpo di Jodà con una seconda, li condusse alla Land Rover. Tagliando per viuzze secondarie, a bassa andatura uscì dalla città.
Da più di un’ora procedevano verso Nord, quando Keyla uscì dal torpore catatonico
– Dove ci stai portando ?-
– Congo. –
– Come ci arriveremo? –
– Il Lago Kivu. Ho dei contatti.-
– Allora sei nella direzione opposta.- commentò sarcastica
– Abbi fiducia.-
Una rabbia selvaggia le salì alla gola, come poteva quel tizio incontrato al massimo quattro volte parlare di fiducia. Con quale diritto l’aveva strappata da Jodà, impacchettata, caricata sull’auto senza darle il tempo di pensare, fregandosene del suo dolore, e adesso la stava trascinando in Congo! Ebbe voglia di prendere il bambino, aprire lo sportello, buttarsi giù… Sconvolta, appoggiò la fronte al finestrino. Chiazze di vegetazione interrompevano l’uniformità ocra del paesaggio punteggiato di villaggi sparsi a caso, bianchi grani di miglio caduti dal sacco bucato della civiltà. Civiltà…un’altra parola cancellata a colpi di macete, affogata nel sangue, come Jodà, come la sua vita…Tornò a guardare Qebir – Perché lo fai, questa follia tribale non ti tocca.-
– Jodà era più di un collega. Piangere ti farebbe bene…-
– Tu pensa a guidare.- mormorò a labbra strette. Bruciante, come in preda ad una febbre improvvisa, chiuse gli occhi e il cuore.
Nel riverbero del sole già alto, la Rover era un filo di polvere appena identificabile nella grande pianura. Evitando le buche trasformate dalla pioggia in lucidi specchi, Qebir conduceva l’auto sobbalzante fra campi, sterpaglie e mandrie di scarne vacche cornute. Poco distante, alcune donne coi figlioletti legati alla schiena, si distolsero dai lavori agricoli. Schermando gli occhi, si chiesero perché mai quel veicolo procedesse da lì ignorando la comoda Kagitumba road.
Anche Keyla le osservava – Sono Tutsi, bisogna avvertirle.-
– Non è prudente, meglio proseguire.-
– Fermati! –
Di controvoglia, Qebir sostò in un villaggio abitato unicamente da donne, bambini e vecchi. Gli uomini validi lavoravano in città; tornavano il fine settimana per guardar crescere i figli e metterne al mondo altri. Il vecchio patriarca ascoltò in silenzio. Dato l’ordine di radunare le bestie, e caricati sacchi di granaglie sul malandato autocarro, si mise alla testa della colonna. Cantavano ritmando il passo verso le colline. Risalendo in macchina, Keyla si chiese se la missione alla quale si dirigevano li avrebbe protetti: una croce poteva fermare i macete?
Poco dopo, Qebir accese la radio. Incontrollabili, le milizie mietevano Tutsi e quegli Hutu vigliacchi che non sostenevano la loro follia. Gli osservatori ONU erano stati richiamati, la situazione precipitava. Con una brusca sterzata piegò a Sud Ovest.
– Reggiti forte, da qui in avanti si balla.-
In preda a mille angosce, Keyla non lo ascoltava. Un sobbalzo improvviso la mandò a sbattere contro il finestrino, il bambino iniziò a strillare. Esasperata, strattonò il velo.
Dallo specchietto gli occhi di Qebir si fecero gravi – A Mabanza c’è una sede della compagnia, là potremmo riposare un po’. –
– Riportaci a casa. Questa fuga è assurda, inutile!-
Concentrato sulla guida, Qebir non rispose, ma affondò il piede sull’acceleratore.
Sballottati come noci in un sacco troppo grande, superarono dossi, risalendo ancora per poi tuffarsi in pendii sempre più accidentati. In tutto quel trambusto, il bambino strillava reclamando la poppata. Per ritagliarle un angolo di privacy, Qebir fermò l’auto sul primo spiazzo agibile. Scese, approfittando della sosta per sgranchirsi le gambe. Col figlio al seno, Keyla gli lanciò una fugace occhiata e una domanda, la stessa, salì alle labbra “Perché!” In lontananza, onde di colline si susseguivano morbide. Si sarebbe detto un mare fermato nel movimento dal capriccio d’un dio Pesanti nuvole viola s’ammassavano all’orizzonte: le grandi piogge premevano alle porte e con esse la rinsecchita savana sarebbe tornata dominio d’erbivori e predatori : l’eterno ciclo della vita e della morte, ancora una volta, avrebbe scandito il passaggio delle stagioni. Un’altra lotta, mille volte più feroce, era già in atto. L’atavico odio tribale, nutrito da mire di potere, resuscitava spettri avidi di sangue, e i cadaveri, a centinaia, imputridivano ai lati delle strade. Anche Jodà era rimasto sul pavimento! Maledicendo Qebir per non averle permesso di inumarlo, pregò con tutte le forze che la casa andasse a fuoco perché le spoglie dell’uomo che amava non diventassero pasto per i licaoni. Il bambino si mosse contro il petto: l’innocente vulnerabilità del corpicino che si abbandonava fra le braccia, sciolse il nodo che le strangolava il cuore. Guardò lo straniero dai vestiti impolverati: aveva l’aria stanca. Anche lei era stanca, abbassò le palpebre e finalmente pianse.
Il viaggio si protraeva da ore, quando, nella luce rossastra del tramonto, l’insegna della compagnia mineraria le strappò un sospiro di sollievo. Qebir invece contrasse le mani sul volante: i cancelli erano spalancati. Guadandosi intorno, entrò a velocità moderata Dal prefabbricato centrale tre individui uscivano coi mitra spianati. Qebir arrestò il veicolo mantenendo il motore acceso – Non parlare, lascia fare a me.-
I tre si disposero a ventaglio.
– Scendi! – Intimò quello che comandava strappandogli di mano il documento.
Il secondo, con la punta dello stivale, staccò fango dalla targa. Un sorriso feroce balenò minaccioso – Segnalata a Kigali, zona residenziale…Chi è quella seduta dietro?! –
– Mia moglie. –
Di scatto aprì lo sportello strattonando il velo che copriva la donna. Qebir lo agguantò per le spalle – Fermo! La direzione della compagnia mineraria non tollererà l’affronto alle consuetudini islamiche. Il tuo governo può fare a meno dei nostri investimenti?- Il mercenario esitò. Quell’attimo bastò a Qebir per afferrarlo al collo. Un rapido movimento rotatorio e, facendosene scudo, rivolse il mitra all’altro miliziano aprendo il fuoco. Sventagliando raffiche, il terzo avanzò di rinforzo. Keyla si buttò sul bambino, con un balzo, Qebir guadagnò l’interno del veicolo. Qualcosa lo morse sotto la scapola sinistra. Ignorando la fitta bruciante, strinse il volante, affondò l’acceleratore travolgendolo. Sgommando, s’allontanò a tutta velocità. Per alcune miglia mantenne l’andatura, poi uno stordimento improvviso lo costrinse a fermarsi. Qualcosa di caldo e viscoso colava lungo il torace. Abbassò gli occhi: era coperto di sangue fino alla cintura. – Guida tu. – disse passando sul sedile a fianco. Keyla inorridì, ma strisciò il velo per ricavarne bende con cui avvolgere stretto il torace dell’uomo. Deglutendo paura e angoscia, guardò il volto sudato dell’ingegnere minerario – Dove vado? –
– Sempre dritto, al secondo bivio svolta a destra. Evita i villaggi. Alla punta Kibuye nascondi la Rover e scendi al lago. – visibilmente spossato, fece una pausa per riprendere fiato – La riva sarà sicuramente pattugliata…- s’interruppe di nuovo ansimando. Keyla gli avvicinò la borraccia alle labbra. Pochi sorsi e insieme ad un attacco di tosse, rigurgitò acqua e sangue.
-…Si chiama N’Tumbà, ti troverà lui. Fidati è un bravo ragazzo. –
Le parole uscivano impastate, per udirle meglio si chinò su di lui. Qebir le prese la mano -Subito, parti subito.
– Hai bisogno di cure.-
– Non preoccuparti. – bisbigliò con un impercettibile sorriso.
Senza commenti, lo assicurò con la cintura di sicurezza, accese i fari e partì. La notte era scura: spesse nuvole passavano pigre davanti alla luna che solo a tratti illuminava cespugli e sassi. In fondo alla prospettiva le luci di Gitesi pulsavano tremule. Keyla si volse : gli occhi spalancati sul nulla, Qebir se ne era andato. Soffocando un grido, si guardò intorno: sul sedile posteriore il bambino vagiva, presto avrebbe reclamato la poppata. Non poteva fermarsi. Allungandosi, passò il braccio dietro, non ce la faceva. Lasciando per un attimo la macchina in balia di se stessa, riuscì ad afferrarlo. Posizionato il figlio sulle ginocchia, con una mano agguantò il volante, l’altra sbottonava la veste. Mentre il piccolo succhiava beato, a fari spenti passò davanti ad un gruppetto di case, le sole per fortuna. Punta Kibuye era in fondo alla discesa. Poteva distinguere il tremolio dell’acqua e la linea chiara della spiaggia. Adesso doveva trovare un posto in cui nascondere il veicolo. L’idea d’abbandonare Qebir le fece male. Sottovoce intonò l’antico canto dei morti perché gli spiriti degli antenati l’accogliessero con onore. Sussurrate, le parole uscivano martellanti. Non supplicavano, imponevano rispetto per il guerriero generoso al punto di sacrificare se stesso per una donna e un bambino non suoi. La luna sprizzò dalle nuvole rivelando una specie di galleria frondosa. Prudentemente s’inoltrò per alcune decine di metri. Col figlioletto addormentato al seno, posò un bacio sulla fronte ancora calda di Qebir – Addio amico mio.- mormorò avviandosi al lago. Le ginocchia tremavano e la paura raschiava la gola, ma avanzò ancora tenendosi più bassa che poteva. Ecco, il lago lambiva i piedi, intorno oscurità e silenzio. Rallentò il respiro concentrandosi su eventuali rumori. Lo schiocco d’un ramo la fece appiattire sulla sabbia. Terrorizzata, tastò alla ricerca di qualcosa con cui difendersi. Passi leggeri venivano verso di lei, in lingua Tutsi qualcuno li chiamava. Un giovane uomo l’aiutò a rialzarsi – Sei sola…dov’è Qebir ? –
Impercettibilmente lei scosse il capo. Gli occhi del giovane ebbero un lampo. Non disse nulla invitandola a seguirlo. Poco oltre l’ansa, una barca a motore oscillava pigra. Salirono, e per mezz’ora N’Tumbà remò di buona lena. Quando giudicò d’essere abbastanza lontano, accese il motore. Col vento del lago sul viso, gli occhi fissi all’orizzonte scuro, non s’accorsero della vedetta che si staccava dal molo. L’urlo d’una sirena li colse alle spalle mentre una luce veloce fendeva la notte.
– Reggiti! – gridò N’Tumbà spingendo il motore al massimo. Pinnacoli d’acqua s’alzavano dietro di loro – Ci sparano addosso, stai giù! –
La piccola imbarcazione scricchiolava e gemeva nel tentativo di sfuggire alla pattuglia costiera.
– Un miglio, un fottuto miglio e siamo fuori !- sbraitava il giovane coi pugni al cielo.
I proiettili fischiavano più vicini mentre la vedetta cavalcava ormai la scia della barca.
– Sai nuotare? –
Gli occhi sbarrati, Keyla annui.
– Buttati, adesso! –
L’impatto col lago fu violento, ebbe l’impressione di rimbalzare sul cemento, poi lo sentì entrare di prepotenza nel naso e con uno sciacquio assordante tirarla verso il fondo. Strinse forte il braccio intorno al figlio mentre agitava le gambe cerando di risalire. Una mano l’afferrò sotto l’ascella: N’Tumbà le tirava la testa fuori dall’acqua. D’istinto gli tese il bambino. A poche decine di metri la vedetta gettava fasci di luce nel lago. Li stavano cercando. Sforzandosi di muovere meno acqua possibile, piano, piano si allontanarono. Il giovane uomo la precedeva di parecchio mentre lei, quasi allo stremo, s’impegnava a non perdere il contatto. I muscoli rigidi come pietra le impedivano d’avanzare; un crampo al polpaccio la tirò giù, un secondo le bloccò la respirazione. Si dibatté, chiamò aiuto, ma dalla bocca uscirono solo gorgoglianti bolle. Come una farfalla dalle ali aperte, lentamente scese nel fondo del lago.
– Siamo in acque territoriali congolesi! Ce l’abbiamo fatta! Dove sei? Keyla! Keyla!- gridò N’Tumba girando su se stesso. Veloce tornò indietro. Guardandosi intorno, continuando a chiamarla, cercò, cercò ancora. Appena increspata, la superficie del lago si muoveva placida. Allora posizionò il piccolo nell’incavo del gomito sinistro e bloccandolo al petto, si mise sul dorso spingendo a potenti gambate verso l’isola di Idjwi.
Diciotto anni dopo, Chybali guardava il lago.
– Pensieri?- disse N’Tumbà affiancandolo – Se alla tua età l’avessero proposto a me, avrei dato un braccio per scambiare la vita di pescatore con quella di ranger. –
Il giovane si volse – A cosa servirebbe un ranger monco! –
N’Tumbà rise alla battuta, anche Chibaly rise, poi tornò a guardare il lago.
– Sai…- disse accennando alla linea di terra in fondo all’orizzonte – Non ho niente di lei…adesso che sto per partire a Kinshasa, dammi almeno un nome da portare con me.-
N’Tumbà gli cinse le spalle – Che importa il nome…chiamala semplicemente Madre e dall’ombra della luna lei ti sorriderà.-
In silenzio, rimasero con le tuniche gonfie di brezza e il cuore d’incertezze. Lontano un klaxon strombazzò a più riprese. Disturbato, lo stormo di fenicotteri intento a setacciare i bassi fondali s’alzò in volo. Chybali prese il manico della valigia. Il piede sul primo gradino del pullman, si volse – Jambo! – lanciò col braccio destro alzato. Dalla riva, N’Tumbà ricambiò il gesto – Buona fortuna a te ragazzo, che la vita sia un dolce viaggio. – mormorò in punta di labbra, e voltate le spalle, impugnò la canna da pesca sedendosi come sempre di fronte al lago.