Fra i tanti, percorsi, magici, di Dino Campana quello in Sardegna, nell’inverno del 1915 è senza dubbio suggestivo e fecondo di vera lirica. Campana scrive a Papini, in una lettera del primo febbraio di quell’anno, “la Sardegna è un paese arido e scoraggiante: sono ora a Torino!”. Sappiamo per certo che Campana si era già recato, nella primavera del 1913 in Sardegna, imbarcandosi a La Spezia. Non arrivava, quindi in Sardegna casualmente, e non solo perché sua cognata, la moglie di Manlio era sarda, ma perché voleva approfondire direttamene le immagini, le suggestioni, gli stimoli letterari ricavate da Sebastiano Satta ( Nuoro 1867-1914) i cui Canti Barbaricini erano ben noti e apprezzati dal grande marradese; significativa la citazione di un verso della lirica Tedio (in Chiacchierata serale): Era il granito delle tombe la rosa centifoglie, che Campana scrive nel periodo torinese subito dopo essere stato in Sardegna.
Dopo quella visita-soggiorno in Gallura, a proposito della Sardegna e della sua Prosa in poesia, contenuta nel Taccuino (del quale conservo una copia della preziosa edizione del 1949 curata dal Matacotta), Campana scrive da Livorno il 4 gennaio 1917 a Sibilla Aleramo: “cara Rina….Mio amore La Gorgona è un dosso lontano sul mare abbandonata laggiù nei tramonti. Tu ora mi conosci e potremmo abitare lontani se non mi abbandoni col pensiero. Una volta in Sardegna entrai in una casa con fuori una vecchia lanterna di ferro che illuminava la parete di granito. Fuori la via metteva sulla costa pietrosa che scendeva dall’altipiano al mare. Questo ricordo che non ricorda nulla è cosi forte in me! La costa bianca di macigni aveva bevuto il tramonto cupo e rosso che chiudeva l’isola e ora colla lanterna rugginosa solo le stelle sull’altipiano brillavano a me a Garcla. Io baciai la parete di granito senza pensare e non so ancora perché. Ricordo che in quella casa stava la sarda moglie dell’alcoolizzato amico dell’amico del nostro amico. Bevemmo il moscato bianco salmastro di Sardegna ed è idiota come mi ricordo di tutto questo. La mia padrona e dell’Isola del Giglio dove io farei certamente bene ad andare ad abitare per un anno almeno. Tu non ne vedi la possibilità?…”.
La Sardegna di Campana è un quadro intenso e fedele della Gallura, della Maddalena, dell’Altipiano di Tempio con sullo sfondo i monti di Aggius.
Prosa in poesia riempie quasi cinque fogli del suo Taccuino e inizia la sua suggestiva descrizione con il motivo “bizantino” a lui così caro e ricorrente nella Notte dei Canti Orfici (il Taccuino è successivo alla pubblicazione dei Canti Orfici, Marradi-Ravagli 1914).
Prosa in poesia con alcune pennellate racchiude, insieme all’incalzare della poesia campaniana che trasmette subito a chi la legge il movimento delle onde del mare, una Sardegna vera e forte, una cultura antica legata con la sua originalità “a’n vecchio bon sangue italiano”.
Tutta mediterranea, dai toni forti e nello stesso tempo intriganti e magici, la Sardegna, pur non accolta nei Canti Orfici, perché scoperta e vissuta dopo il 1914, come la Toscana, la Romagna, la Liguria ed il Piemonte appartiene a pieno titolo ai luoghi campaniani. In una lettera dell’agosto 1913 a Sibilla Aleramo, Campana scriveva: “Dalle rupi di Campigno, nelle cui rupi pietrose abita permanentemente il falco io spero di superarle e di volare sopra di esse con tutta la fierezza e la forza dell’aquila. Fra tutti gli aeroplani moderni, anche il mio seguirà il suo destino. O la morte o la Gloria!”.Campigno non è poi così lontano dagli aspri picchi della Sardegna. Campana riuscì a volare in quella terra immergendosi in quella antica e straordinaria cultura armato della sua grande sensibilità, della sua straordinaria conoscenza, di un Taccuino e di una matita per immortalare l’Isola nella Gloria di un frammento della sua Poesia.
Rodolfo Ridolfi