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Blog Biblioteca Marradi 93-Giovanni Costetti:Dino Campana.”Canti Orfici”

Giovanni Costetti ritratto di Dino Campana(?)

mercoledì 26 settembre
Credo che un giudizio di pittore sopra un’opera di poesia pos­sa interessare forse più della critica d’un letterato o d’un filo­sofo. E più facile all’artista di avere di essa un’opinione meno logica, più istintiva, più passionale. Mi pare che la critica diventi spesso arido esame di difetti o qualità tecniche e agisca dietro certi presupposti malsicuri. In­fatti a seconda di certi suoi dogmi mutevoli ammette o nega valori che anche negati o ammessi non distrugge o non affer­ma durevolmente. Le forbici del critico cosiddetto competente, tagliano spesso male, o troppo o insufficientemente. Il critico non dovrebbe esistere perché non è un uomo d’intuizione, e l’opera d’arte vera è sempre intuitiva. Ma forse la ragione materiale di esi­stere del critico è l’opera d’arte voluta cioè falsa che è sovrab­bondante e che bisogna condannare.
Il volume di Dino Campana “Canti Orfici” di cui sto parlan­do, non mi sta fra mano. Io l’ho letto da circa un mese. E’ dunque diventato per me “un ricordo” ma appunto perché ta­le, perché ricordo vivo, suggestivo, io sento di occuparmene. Molte cose mi rimangono di questo libro; sovrattutte mi ri­mane la sintesi delle diverse impressioni. Egli ha nel ricordo un’unità che non gli si può ritrovare subito quando le bellez­ze particolari ci afferrano individualmente.Io lo vedo sotto un’atmosfera unica, ma complessa, nella sua unità spirituale, lo vedo nostalgico e vibrante. La sua luce è come quelle delle albe fosche, bianchicce e soavi, le forme so­no fantastiche come le fa l’alba e i rumori lontani come nel sogno. La musica invade il poema che è pieno di colori – la musica è nelle parole commosse, nelle immagini nuove – nei significati profondi – la pittura è in tutto.

Giovanni Costetti – Ritratto di Dino Campana (?)
” E soleva vagare quando il sogno
E il profumo velavano le stelle
(Che tu amavi guardar dietro i cancelli
Le pallide stelle notturne) ”
Dino Campana

Il Campana riproduce sempre il ricordo delle cose, cioè le cose nel loro velo di pensosità. Essa è viva moderna e la si vede, attraverso le parole sincere e le immagini sintetiche, varia sono­ra come i bronzi vibranti musicalmente. L’A. ha l’occhio d’un impressionista, ma tende contrariamente all’impressionismo che disfa i corpi per il trionfo della luce, a invigorire i corpi pure mettendo un velo nostalgico nell’atmosfera. Egli adope­ra molto i viola, i bleu, i bianchi. Vede la notte viola, il sonno bleu, evita nelle ombre i neri le terre e crea così una sensibili­tà trasparente e fresca, e davanti alle sue visioni noi sentiamo che il suo mondo pure essendo il vecchio ha la sensibilità nuo­va che ce lo ringiovanisce e ce lo trasfigura.
Campana perché è un vero poeta ci fa amare, ci scalda il cuo­re. Egli ha nella sua poesia una vera intimità e si fa quindi no­stro intimo subito.Quando lessi un mese fa i “suoi Canti Orfici” sentii questa inti­mità e non potei per quanto pigro in generale nella lettura, so­spendere il libro. Tanta era la fluidezza, tanta la schiettezza sua, tanta la differenza dagli altri libri di poesia da me letti ultima­mente che mi domandai come viveva l’autore. Non le solite sensazioni del poeta pigro di città, cacciato fra i comodi, e i troppi libri e sotto molte influenze di timbro più che di conte­nuto, non visione borghese espressa in versi o in prosa poetica, ma qualcosa di Straordinario. Una sincerità un’inquietudine che solo gli spiriti vagabondi e audaci di prova e di vita hanno.Ma diffidai della mia impressione. Non è la prima volta che a prima lettura mi è parso vivo. L’esperienza mi ha però inse­gnato che spesso questo libro, senza anche rileggerlo ci diven­ta antipatico. Infatti il falso è in quasi tutte le opere dell’inge­gno umano. Falsi gli atteggiamenti dello spirito e quindi falsa l’opera, ma con astute apparenze di schiettezza. Il volume di Campana a distanza sufficiente di tempo, mi ha lasciao il suo profumo schietto di spigo, e lo ricordo bene, e l’ho in me come un amico che mi segue e che ritrovo collo sguardo tratto tratto mischiato fra gli altri amici. Ho la fortu­na di una memoria intelligente, insufficiente per le cose clic mi interessano poco, negativa per quelle che alle volte si dovreb­bero ritenere per il patrimonio utilitario, e magnifica per le co­se che amo. E amare una cosa significa sentirla dentro di sé.
E ricordo per esempio la prosa poetica “la notte” in cui l’autore mi appare un uomo che abbia vissuto di mondo sunnanbolesco di Verlaine di Baudclaire, e i ritmi liberi di Mallarmé. Ri­cordo la bellezza sincera dello stile di queste pagine e il godi­mento artistico che mi davano leggendole. E le poesie nuovi ritmi, immagini improvvise, illuminanti zone d’ombra, ma non il nuovo voluto a tutti i costi, non le immagini forzate, non i troppi ritmi, non l’intenzione, bensì l’espressione. Conosco dei poeti mentali che vogliono. Vogliono far ritmi, sonanze, dissonanze nuove, capovolgere in tutti i modi i significati. Essi ri­escono artificiosi. Non posso amarli perché disgraziatamente, vogliono essere poeti. E volerlo essere vuoi dire non esserlo.E vogliono esserlo cercando con occhi aridi, e senza cuore, fuori dalia poesia, nella istessa notte, ma lontano dall’ansia e dal palpito.Le loro ricerche sono esterne, non unite col contenuto: voglio­no esasperare la sensibilità, caricare i risalti fino alla pesantezza, eccedono di particolari, hanno un numero incredibile di aggettivi per qualificare liricamente una cosa, cercano certe unioni di frasi canore in contraddizione collo spinto delle co­se stesse, portano nei verso certi inceppi che determinano un arresto in necessario al lettore, un ostacolo alla scorrevolezza.
Essi calcolano male sui toni della tavolozza lirica, e dilatano o restringono o smorzano le intonazioni pittoriche e musicali, non dietro un moto intuitivo, ma per soverchio ragionamen­to.Campana è lontano da costoro, come la sincerità, l’esperienza sono lontane dalla falsità e dalla teoria. Egli non scrive su teo­rie, e il suo mondo non è una presunta scoperta. Non vuole etonnée non pretende dire del nuovo, ma esprimere se stesso, nella propria schiettezza. La schiettezza sua consiste, passando attraverso le cose, nel vederle vive. Ci sono molte cose nel mondo o in noi del mondo, che rappresentano una sopravvi­venza fredda, che si sono mummificate. Pel poeta le cose sono solamente vive, vale a dire mutevoli. C’è dei critici che giudicano il poeta divisibile e dicono, per esem­pio, il tale è un poeta nuovo, come se esistesse il poeta vecchio. Pure non è che una condizione: l’intuizione, l’emozione por­tate a potenza. Non può esistere quindi che il poeta senza gli aggettivi di nuovo e vecchio. Che se si volesse credere al poe­ta nuovo bisognerebbe ricercarlo non fra i nostri modernissimi, ma da Leopardi ridiscendere al medioevo. La modernità è piena di sforzi per essere viva le occorre il ge­nio, e noi non sappiamo se egli ancora è in azione.
Il mondo del poeta è quindi sempre nuovo, più o meno ricco o vasto. Il poeta va da una schiettezza relativa (suggestionata) a quella maggiore che domina le suggestioni, e vede con cuore e intel­letto puri.Le liriche e le prose del Campana, per me artista pittore han­no già le qualità di una forte schiettezza, anche se come dicessi esse derivino qua e là.Noi disgraziatamente non possiamo o abbiamo l’abitudine di leggere dei libri prima di leggere la natura. Avanti di cono­scerci, di visitare noi stessi, prima di questa possibilità non ab­biamo che quella di esplorare il mondo e l’io degli altri, dei grandi. Con essi possiamo entrare con più schiettezza nel no­stro laberinto. Che Campana per la sua tragedia interna, per i dualismi della sua anima, per la sua lotta di liberazione, anco­ra sia sul terreno a combattere anche contro gli altri e adope­ri anche armi raccolte sul terreno, è umano. Egli sta foggian­do le sue armi, egli sta svolgendo la sua vita. Vita coraggiosa; lontana dalle vanità e comodità che impigriscono. Vive, vero nomade dello spirito, e non ha pace che nel movimento. È avventuroso, ama gli uomini idealmente, ma la loro volgarità lo stanca e allora ritorna alta solitudine dove si è puri e schietti. E quando la solitudine non gli parla più allo spirito, ritorna fra gli uomini portando fra di essi il suo scontento, la sua ansia, la sua bellezza selvaggia. Questo è quanto so dire di lui.
Anche senza la critica altrui che lo esalta già, io ho pure sco­perto in lui il poeta.
Il poeta della nostra gioventù, più denso e più schietto.

“LA TEMPRA” (Pistoia), II, 1915, 1, pp. 6-7

Blog Biblioteca Marradi 93-E’ ambientata a Faenza o a Marradi la sera di fiera di Dino Campana?

Giovanni Costetti Ritratto di Dino Campana
lunedì 24 settembre

Nel manoscritto “II più lungo giorno” la prima composizione appare con il titolo “Scorci bizantini e notti cinematografiche” e cancellato si può leggere in alto: “Cinematografia sentimentale” che doveva essere il titolo della parte che diventerà “La Notte”. Nel 1895 i Fratelli Lumière costruiscono la camera portatile e filmano le prime scene esterne; la prima ripresa in movimento avviene a Venezia su una gondola nel 1897. Le proiezioni avvenivano nei caffè concerto e nelle fiere in apposite baracche. A Faenza all’inizio del ‘900, II settimanale “II Lamone”, periodico che usciva la domenica, il 21 maggio del 1905 scriveva: “il cinematografo che è stato presentato ieri sera all’Arena Borghesi, richiamò molto pubblico e ottenne un lieto successo”. Lo stesso settimanale il 17 Settembre dello stesso anno annuncia la proiezione dell’assedio e capitolazione di Port Arthur (Guerra russo-giapponese). La diffusione del cinema continua in Romagna. Il 24 settembre 1905 sul periodico “Il Lamone” si può leggere: “il grande cinematografo Lumiere si è installato con un grandissimo padiglione nella Piazza Pasi del Borgo D’Urbecco” Nella Notte dei Canti Orfici Dino Campana si aggira in una fiera (Le fiere del bestiame si svolgevano a Faenza la seconda domenica di Luglio, che in quell’anno, cadde il 9 Luglio e la domenica d’Agosto prima di Sant’Elena, in quell’anno, il 20 agosto, compleanno di Campana).

E’ ambientata a Faenza o a Marradi la sera di fiera? Personalmente sono portato a considerare il 22 luglio del 1906 la sera di Fiera (Festa) e Marradi il luogo della sera di Fiera. Ne la sera dei fuochi’ ne la luce deliziosa e bianca’, assomiglia tanto alla festa d’estate, la Festa della Madonna del Popolo che Dino Campana ha vissuto in prima persona nel suo paese natale, come ricorda Franco Scalini nel suo lavoro “Nell’odore pirico di sera di fiera”.

Tradizionalmente l’avvenimento ha una data ben precisa e cioè la seconda domenica di luglio, festa della Madonna del Popolo, ma nel 1906 la celebrazione, fu posticipata per farla coincidere con l’inaugurazione di una fiera di beneficenza allestita nel loggiato delle scuole comunali a favore dell’Asilo infantile che si stava costruendo per accudire i figli delle molte donne lavoratrici. Campana ricorda quella sera di fiera e di fuochi che le cronache del tempo datano 22 luglio 1906 e che fu “splendida ed imponente”e si concluse con “le girandole di fuoco”, “le stelle multicolori” che lasciavano appunto “un odore pirico, una vaga gravezza rossa nell’aria”. Tuttavia è possibile che anche il 20 agosto del 1905 o 1906 a Faenza Campana abbia vissuto la sua sera di Fiera festeggiando il suo ventesimo o ventunesimo compleanno.

Rodolfo Ridolfi

Blog Biblioteca Marradi 93- 25 Settembre 68° Anniversario della Liberazione di Marradi

giovedì 20 settembre

Dopo i terribili bombardamenti del 5, del 30 giugno e gli altri del‘44, il Paese appariva uno spettrale e desolante cumulo di macerie e la popolazione era quasi tutta sfollata obbligatoriamente per ordine del maresciallo Kesselring. Il 10 settembre, l’offensiva del generale Clark, che comandava la 5^ Armata, prese corpo. Gli americani avevano il compito di sferrare l’attacco principale lungo la strada Firenze- Firenzuola-Imola, i britannici si dovevano muovere sulla cosidetta Strada Freccia la faentina Borgo San Lorenzo-Marradi-Faenza. Il 18 settembre del 1944 le truppe alleate liberavano Biforco. L’8^ Divisione di Fanteria indiana agli ordini del generale maggiore D. Russel, conosciuto come Russel Pasha, dopo aspri e sanguinosi combattimenti, spesso all’arma bianca, si impadronì del caposaldo tedesco sul monte Femmina
Morta aprendo così la strada per Crespino e la Valle del Lamone. Per primi arrivarono, direttamente a Biforco, i GurKa dell’8^ divisione cui si aggiunse in seguito una parte della prima divisione britannica di
fanteria ed insieme procedettero alla completa liberazione del capoluogom di Marradi. Il 24 settembre il 2nd North Staffordshire occupò Marradi e si spinse sia a nord che ad est ma la compagnia B, che si
muoveva verso Monte Gianni, trovò la posizione occupata in forze ed imprendibile con un assalto diretto. I problemi maggiori erano sul fianco destro della strada per la difficoltà del terreno nonostante gli uomini
della 8^ divisione indiana avessero fatto progressi sia pure lentamente, non riuscivano a cacciare i tedeschi dal monte di Castelnuovo senza il cui possesso Marradi non sarebbe stata per niente sicura. Durissima ed impegnativa fu la battaglia per conquistare Gamberaldi. Gli alleati optarono allora per proseguire l’avanzata a nord est verso la via principale per Faenza. C’erano tuttavia da risolvere alcuni problemi: aprire le strade, i genieri tedeschi avevano sabotato e distrutto il ponte ferroviario a Crespino fatto cadere sulla strada; la
strada a Camurano era stata fatta saltare; il grande ponte di Biforco era stato distrutto come quello di Marradi. C’era poi il problema di allestire un centro chirurgico a ridosso del fronte, questo problema fu risolto costituendo un centro chirurgico avanzato che aveva come nucleo l’infermeria da campo della 2nd Field Ambulance a Fantino collocata nella Villa di Scalini Scala, unico edificio adatto, che garantì abbondanti letti per tutti i reparti. Per questa complessità, aggravata dalle condizioni metereologiche che impedirono agli alleati di ricorrere alla supremazia aerea, furono necessari ancora alcuni mesi per la liberazione dell’intero territorio comunale e per la fine delle ostilità in quanto la linea di avanzamento delle truppe alleate subì una forte battuta d’arresto così che, Abeto, Gamberaldi, Lutirano e Sant’Adriano come pure le aree di Monte Romano e Fontana Moneta, dove erano sfollati moltissimi marradesi, rimasero sotto il controllo dei nazifascisti.

Quei mesi furono interminabili e terribili perché i civili si trovarono intrappolati in una guerra di retrovia di due eserciti agguerriti con l’aggiunta di operazioni belliche e di guerriglia della Brigata partigiana comandata da Bob Luigi Tinti con Guido Gualandi, Moro, commissario politico che tentò
inutilmente di sfondare il fronte tedesco a Purocielo e a Cà Malanca come accadde il 9-13 ottobre ’44. A Fontana Moneta, il giorno della liberazione del capoluogo di Marradi, 25 settembre 1944, veniva colpito
a morte Teodoro Anforti, trentaduenne marito di Rosa, padre di due figlie Agnese e Nella che, come racconta Fedora, la nipote: “Si trovava, insieme ad altri, al pascolo con le mucche quando una pattuglia
di tedeschi, impegnata in combattimento contro i partigiani del Ravenna, lo falciò con una sventagliata di mitra. Il suo corpo fu poi traslato, tre anni più tardi, nella cripta del sacrario dei martiri di
Crespino”. Domenico Albonetti e nello stesso luogo tre giorni dopo, Isidoro Cappelli fu ucciso dai tedeschi il 4 ottobre ai Capitelli di S. Adriano. Il 15 ottobre, a Grisigliano, Jacopo Gentilini cadde per mano
tedesca e Agostino Frassinetti fu fucilato a Cesata di Lutirano il 29. Il tenente colonnello della Wermacht, Helmut Schroeder, nella rivista Alte Kameraden del ‘57 scrisse: “Coi partigiani avemmo rilevanti noie nei dintorni di Marradi. Più di una volta le salmerie furono assalite e saccheggiate. Essi erano ben armati ed equipaggiati grazie ai rifornimenti di armi paracadutate dagli aeroplani. Li lasciavamo fare quando infine un giorno presero un intero ospedale da campo, con medici, feriti ed attrezzature. Iniziò da quel momento un nostro energico contrattacco condotto su larga scala e setacciammo l’intera zona. Era assai difficile distinguere i partigiani dagli abitanti del luogo”. Le formazioni partigiane operanti nel Territorio di Marradi furono: un gruppo partigiano di Giustizia e Libertà, diretto da Riccardo Gizdulich capitano Bianchi, che organizzò quella banda partigiana che doveva diventare in seguito la Seconda Brigata Rosselli; la Brigata Lavacchini della Divisione Potente, comandata da Donatello Donatini; la Prima compagnia Sergio e la Seconda compagnia Villi, della 8^ Brigata Romagna, che operò dal gennaio all’aprile ‘44, di questa Brigata facevano parte i marradesi Martino Alpi e Sirio Di Paolo Ancillotti; la Banda Corbari, una ventina di uomini impegnati dall’aprile all’agosto ’44 mese della cattura di Corbari e di Ines Versari; le compagnie Amato, Marco, Pino, Tito, Ettore e Paolo della 36^ Brigata Alessandro Bianconcini Garibaldi attiva dall’aprile all’ottobre 1944. Il comandante Paolo, Francesco Gentilini, muratore, classe 1924 di Riolo Terme, tenente partigiano, il 10 giugno 1944 entrò di notte a Marradi fece prigionieri i carabinieri e distribuì un carico di grano destinato alla Germania e prima di andarsene provvide a bruciare gli incartamenti dell’ufficio di leva. Paolo l’11 agosto del ‘44 partecipò alla battaglia di Capanna Marcone e dal 1966 al 1980 fu sindaco comunista di Massa Lombarda. Nel territorio del comune di Marradi operò anche il battaglione Ravenna, forte di una quarantina di uomini. Il Ravenna era comandato da Vittorio Bellenghi e dal suo vice, Bruno
Neri, entrambi uccisi a Gamogna nel luglio ’44.

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19 SETTEMBRE L’ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI GIUSEPPE SARAGAT

mercoledì 19 settembre
Il 19 settembre ricorre il 114° anniversario della nascita (1898-1988) di Giuseppe Saragat ma le istituzioni ed i partiti non hanno promosso e non promuovono le doverose e significative iniziative che questo evento meriterebbe. Le cooperative che devono tutta la loro storia migliore ai riformisti saragattiani, come fu il primo ed unico Presidente della Lega non comunista Emilio Canevari, di Reggio Emilia, si guardano bene da ricordare gli anni in cui Togliatti si impadronì delle coop per trasformarle nella cinghia di trasmissione. A Faenza all’inizio del “prodismo” volevano addirittura cancellare Piazza Pietro Nenni figuriamoci se ricordano Saragat che fu Presidente dell’Assemblea Costituente e si dimise quando fondò il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (poi PSDI) lasciando il posto al comunista Terracini. Saragat fu più volte ministro e fu Presidente della Repubblica dal 1964 al 1971. E’ stato soprattutto un intellettuale e un uomo politico che ha illuminato i periodi più difficili della storia italiana con la sua grande tolleranza e con i suoi ideali liberali e socialisti democratici.
La grande attualità del suo pensiero, assunto formalmente anche da coloro che lo avversarono, lo insultarono e lo disprezzarono, ci porta ad affermare che la posizione antisovietica di Saragat fu assai lungimirante e vincente, così come confermato, nell’ultimo decennio del Novecento, dagli stessi avvenimenti storici. Le idee di Saragat moderate e filoatlantiche in contrasto con tutti gli altri partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti d’Europa hanno aperto la strada in Italia all’autonomismo ed al riformismo craxiano. Contro Saragat e poi contro Craxi, si scateneranno le ire e le accuse di tradimento della classe operaia dei comunisti, che oggi attraverso i loro eredi, in maniera ipocrita e strumentale sono anche disponibili, ad usurparne l’eredità. Questa ricorrenza, fatte salve alcune lodevoli iniziative, continua ad essere accolta, evidentemente per il grande imbarazzo dei comunisti e dei post-comunisti, nel silenzio e nella indifferenza.
I progenitori del PD hanno demonizzato e insultato a lungo Saragat: socialdemocristiano e poi socialfascista e socialtraditore, ed i vecchi ricordano quando i comunisti si presentavano ai suoi comizi con la giacca rivoltata perché sull’unica questione davvero essenziale: America o Russia, libertà o comunismo Saragat era dalla parte dell’America e della libertà. Per questo ritengo che le istituzioni saranno migliori e la politica riprenderà dignità quando promuoveranno programmi ed iniziative che, partendo dalla commemorazione del grande statista, renderanno omaggio alla sua ostinata fede nella libertà e nella democrazia ed alla sua lungimiranza politica, indicandola e trasmettendola soprattutto alle giovani generazioni, come esempio da cui possano trarre insegnamento. L’alto messaggio umano e politico che Giuseppe Saragat insieme a De Gasperi ed Einaudi ci hanno lasciato, trova il significato culturale e storico più emblematico nel 18 aprile 1948 giorno in cui l’Italia libera e forte, atlantica, occidentale, cristiana ed anticomunista sbarrò la strada al fronte popolare socialcomunista e staliniano.
Oggi la sinistra conservatrice preferisce giustificare e celebrare i tanti cattivi maestri che troppo spesso vengono immotivatamente ricordati, celebrati e promossi invece di essere opportunamente accantonati e rimossi. In Giuseppe Saragat il tema della libertà fu fondamentale: da qui la sua ammirazione per Benedetto Croce e il suo amore per Goethe. Per questo scelse di lottare per alleare l’Italia alla NATO, all’Occidente libero e all’Europa democratica.

La verità è che i comunisti di tutti i tempi sconfitti dalla storia non possono parlare troppo di Saragat perché ha smascherato Togliatti, Longo e Berlinguer e continua a pesare con il suo pensiero e con le sue scelte come un macigno per tutti coloro che solidarizzarono con i carri armati sovietici a Budapest e poi a Praga anche se hanno scalato i colli più alti.

Rodolfo Ridolfi