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IL GRUPPO ALPINI DI MARRADI “S.Tenente Gilberto Mercatali” all’85^ adunata di Bolzano

Renato Ridolfi Tarvisio 1950
sabato 12 maggio
Il gruppo alpini di Marradi esprime e rappresenta un valore insostituibile nella nostra comunità.Con queste parole il sindaco Paolo Bassetti ha più volte elogiato il Gruppo Alpini titolato al sottotenente Gilberto Mercatali morto nella campagna di Russia. Gli alpini di Marradi che hanno come capogruppo Mario Betti, saranno a Bolzano domenica 13 fra le 250.000 penne nere che sfileranno per l’85^ adunata del corpo orgogliosi per il loro immenso contributo alla Patria e per la solidarietà che quotidianamente esprimono nelle comunità locali. A Marradi sono attivissimi e presenti ovunque c’è bisogno di una mano.
L’Associazione Nazionale Alpini è nata per iniziativa di un gruppo di reduci della prima guerra mondiale l’8 luglio 1919 a Milano. L’unico ufficiale di fanteria alpina di Marradi nella prima guerra mondiale è stato l’avv. Federico Consolini che fu sindaco e podestà di Marradi. L’associazione Nazionale Alpini è nata a Milano nel luglio del 1919 per iniziativa di un gruppo di reduci della prima guerra mondiale e tenne il suo primo raduno nel settembre del 1920 sull’Ortigara quando il decano degli alpini di Marradi Renato Ridolfi aveva un anno. Renato, l’unico marradese ufficiale della fanteria alpina nella seconda guerra mondiale, che abbiamo incontrato il 25 aprile con i suoi più giovani compagni d’armi al sacrario di Crespino Sul Lamone, seguirà i suoi commilitoni alla televisione con partecipazione considerando anche che a Bolzano a Merano, a Cavalese, a Bassano del Grappa e a Tarvisio è stato allievo ufficiale ed ufficiale. Renato Ridolfi, coetaneo ed amico fraterno del sottotenente dell’artiglieria alpina divisione Cuneo Gilberto Mercatali, morto nella campagna di Russia, fu richiamato alle armi il 6 dicembre 1941 ed inviato ad Aosta alla Scuola Centrale Militare di Alpinismo, III battaglione Universitari, Allievi Ufficiali Caserma Testafuochi per essere poi destinato nel 1942 a Merano e ad Argnano Sul Garda, poi al 104° Reggimento di Marcia di Cavalese e poi dal gennaio 1943 alla Scuola Allievi Ufficiali di Bassano del Grappa. L’8 settembre del 1943 era in licenza in attesa di nomina. Fu richiamato nel 1950 all’8° Alpino, Battaglione L’Aquila di Tarvisio con il grado di Tenente.

La vita, i canti marini e i misteri orfici di Dino Campana nel libro di Enrico Gurioli

Enrico Gurioli
giovedì 3 maggio 2012″Barche Amorrate. Dino Campana. La vita, i canti marini e i misteri orfici”
di Enrico Gurioli
Fortezza Vecchia di Livorno, 14 maggio 2012 – presentazione del nuovo libro di Enrico Gurioli, in collaborazione con l’A.N.G.O.P.I, edito da Pendragon. Per l’occasione andrà in scena una pièce teatrale tratta dal libro stesso che vedrà impegnati gli attori Oscar De Summa, Riccardo Monopoli; la soprano Federica Balucani e il pianista Pape Gurioli con la direzione tecnica di Fabio Sartoni. Il libro sarà al Salone del Libro di Torino dal 10 al 14 maggio e immediatamente disponibile in libreria e su Internet dopo il Salone.

GIANNA BOTTI SI AGGIUDICA IL PRIMO PREMIO AL CONCORSO NAZIONALE LETTERARIO “MARA CASSIGOLI” CON IL RACCONTO “CUORE NEGATO”

G.Botti-E.Gardenti-F.M.Casini-D.Maraini
domenica 6 maggio
Nessun dubbio per la Giuria dei Lettori presieduta da Francesca Maria Casini e composta da: Anna Amodeo, Stefano Casci, Erica Gardenti, Gianni Malesci, Giuliana Marra, Stefano Maurri, Elena Trabaudi, Cecilia Trinci; il primo premio della II edizione del “Mara Cassigoli” voluto ed organizzato da Erica Gaudenti dell’editrice fiorentina Sole Ombra con il patrocinio del Comune e della Provincia di Firenze se l’è aggiudicato Gianna Botti con il suo appassionante “Cuore Negato”, racconto inedito, che farà parte del suo libro “E mail a quattro zampe”. Gianna si è imposta ai duecento partecipanti precedendo una scrittrice di Brescia ed una di Ferrara ed ha ricevuto sabato scorso l’ambito riconoscimento dalle mani di Dacia Maraini nel corso della cerimonia di premiazione alla Biblioteca delle Oblate a Firenze dove Giannarosa Botti era accompagnata dall’assessore alla cultura del Comune di Marradi Silva Gurioli.
Marradi Freenews, che aveva segnalato come Giannarosa Botti, che fa parte dell’Associazione Culturale “Il Maestro di Marradi”, fosse fra i finalisti del premio letterario nazionale pubblica integralmente per il piacere di tutti i lettori il racconto della vincitrice.

CUORE NEGATO
Il ragazzo andò alla finestra: pioveva a dirotto. Per un po’ rimase a guardare il giardino opaco a cui la pioggia aveva lavato ogni traccia di colore, poi avvicinò la mano e con l’indice tracciò tre lettere sul vetro: Joy.
Beffardo sorrise al proprio nome, lui era così, lucido e immobile come quegli alberi. Volse la sedia a rotelle entrando in chat line. Lasciata in sospeso una conversazione priva di qualsiasi interesse, si riportò alla finestra. Girò la maniglia tendendo la mano all’esterno : bagnata e vuota sporgeva dal davanzale, quando un movimento in fondo al prato lo incuriosì. Tenendo l’anteriore destro sollevato da terra, un cane procedeva su tre zampe.
Viva via che avanzava, joy ebbe modo d’osservarlo meglio: rossiccio, bagnato fino all’osso, sporco, sicuramente affamato non poteva essere che un randagio, uno a cui la vita aveva servito brutte carte. D’improvviso il cane si fermò, annusò l’aria.
I loro occhi s’incrociarono e rimasero a fissarsi attraverso la pioggia. Joy strinse le mascelle: quell’animale non gli piaceva. –
Profondamente a disagio chiuse la finestra, diresse la sedia nel lato opposto della stanza, prese un libro dallo scaffale e s’immerse nella lettura.
Quando rialzò la testa era buio.
Tornò alla finestra: il cane era ancora lì, si sarebbe detto un ammasso di foglie morte se non fosse per quegli occhi, che in barba alla pioggia, lo fissavano solenni.
Due fanali balenarono in fondo al vialetto, il cane si alzò, scrollò il pelo e saltellando su tre zampe sparì nell’oscurità della sera.
Joy riconobbe l’auto del padre e contemporaneamente gli giunse la voce di sua madre che lo chiamava a cena. Scese al piano di sotto utilizzando l’ascensore installato molti anni prima, quando, dopo aver consultato specialisti di mezzo mondo, i genitori
si erano arresi all’evidenza: il loro bambino non avrebbe mai camminato.
Giudicato perfettamente sano dal punto di vista motorio e celebrale, la diagnosi era caduta lapidaria: non camminava perché non voleva farlo.
A nulla erano valse dolcezza, attenzioni, stimoli e ogni sorta di tentativo si era rivelato inutile, Joy rimaneva immobile. E se adesso non frequentava amici né amiche, non era certo perché lo emarginassero, semplicemente i rapporti umani non lo interessavano, il mondo così com’era non l’interessava. Gli piaceva imparare, la sua mente era una spugna assetata di sapere, ecco perché a diciassette anni frequentava il primo anno di fisica. L’handicap non gli pesava, anzi lo considerava l’esternazione della sua diversità del suo essere “speciale”.
Lui era un cervello, a cosa gli servivano le gambe?
La mente è onnipotente, amava ripetersi: concepisce pensieri, inventa, crea. Si muove nel tempo e nello spazio senza barriere, non conosce limiti. La mente è libertà, assoluta, totale. Se posso pensarmi ai confini della galassia e contemporaneamente nella profondità degli abissi, perché limitarsi ad un corpo lento. Ed era con la stessa implacabile analisi che valutava i genitori. Che differenza c’era fra gli stami che producono polline e gli spermatozoi di suo padre? Nessuna. In entrambi i casi era stata rispettata la prima delle leggi naturali: la crescita della specie. Il caso aveva deciso l’incontro dei cromosomi, la moltiplicazione cellulare, la doppia spirale del DNA e se era quello che era, lo doveva solo a se stesso.
Con questi pensieri in testa sedette a tavola. Come ogni sera cenarono conversando del più e del meno e come ogni sera, dopo la frutta, il padre si piazzò davanti al televisore:- Ti fermi un po’ con noi?-
– Un’altra volta papà, ho delle dispense da leggere. Buona notte.-
– Portati un’arancia, hai mangiato così poco.-Disse la madre accarezzandogli i capelli.
Tese il braccio e invece dell’arancia, prese un pezzo di pane.
Risalito in camera evitò d’accendere la luce, attraverso i vetri sbirciò nel prato: accucciato sotto il tettuccio del garage, il cane era sempre là. Con gesti misurati aprì la finestra, prese il pezzetto di pane e lo lanciò. Il cane volse la testa, vide il pane, ma non si mosse. Alzò gli occhi alla finestra. Joy si tirò in dietro e per un po’ rimase nel buio a guardare l’alone sfumato dei lampioni proiettare cerchi nella notte. Dopo un
tempo che gli parve infinito tornò a sbirciare: il tozzo di pane era sempre lì:- Peggio per te. – Masticò fra i denti. Aprì il fascicolo delle dispense deciso a non pensarci più. Così credeva, ma gli occhi dell’animale tornavano ad ossessionarlo. Stizzito posò la cartella e per toglierselo dalla mente, entrò in internet.
Navigando a casaccio s’accorse d’aver aperto un portale cinofilo. Diligentemente comparò le caratteristiche delle varie razze cogliendo l’iter che aveva generato il randagio. Un sorrisetto illuminò il viso: – Sei il frutto del caso, il caos totale…Caos, ecco il nome giusto. Pensò mordicchiando la penna a sfera. Ma che te ne faresti di un nome se non hai né ieri né domani, se ignori il senso della tua esistenza…Strinse i denti, rendendosi conto che quei concetti poteva applicarli a se stesso.
Quella notte dormì poco e male. Dopo una rapida colazione decise di aspettare il padre lungo il vialetto. Girò gli occhi intorno: il pane non c’era, e nemmeno il cane. Salì in macchina, ma fatte poche decine di metri, lo scorse accucciato sul marciapiede. L’auto gli sfilò davanti e Joy non poté trattenersi dal lanciargli una fugace occhiata. Fu allora che nello specchietto laterale, lo vide saltare sull’asfalto e con quel suo balzellare scoordinato lanciarsi all’inseguimento. Chiuse gli occhi e li tenne serrati fino a che non giunsero in tangenziale.
Accantonato il senso di malessere entrò in facoltà. Terminate le lezioni attraversò il cortile dirigendosi all’uscita. D’un tratto il respiro gli morì in gola: seduto oltre il cancello, con le orecchie dritte, il cane fiutava l’aria: pareva attendere qualcuno. Interdetto Joy fece dietrofront. Improvvisamente qualcosa gli sfiorò la mano. Abbassò gli occhi, il randagio gli annusava le dita. Percorso da un brivido ritrasse la mano. La testa del cane si sollevò. Sentì l’ispido del pelo e un inspiegabile calore spandersi in tutto il corpo. Mosse le labbra:- …Caos…- L’animale sembrò rispondere al nome, si protese sui posteriori leccandogli la guancia. Nel tentativo di sottrarsi all’improvvisa, antigienica effusione, Joy si rese conto che la zampa destra non aveva dita né cuscinetti, solo un larga purulenta mutilazione.
– …Aspettiamo mio padre.-
Diligente il cane si accucciò e lui inavvertitamente lasciò penzolare il braccio quel tanto da non perdere il contatto.
Sopraggiunto in quel frangente, il padre sgranò gli occhi : non lo aveva mai visto interessato ad un essere vivente! Senza porre domande li caricò entrambi in macchina. Parcheggiando davanti al primo gabinetto veterinario che gli venne a tiro, chiamò la moglie.
Dubbioso il dottore scosse la testa:-Il tuo amico è robusto, ma non garantisco…-
Drastico Joy l’interruppe- Non è mio amico, è solo un randagio.-
– Lui invece ti considera tale…Allora ragazzo, lo tieni ochiamo il canile?-
– Per il momento… Si.-
– Con che nome devo registrarlo?-
– Caos.-
Al suono della voce il cane drizzò le orecchie, il veterinario ammiccò:- Strano nome,
ma sembra piacergli…Ok Caos, vediamo di curarti.-

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Quella sera le attenzioni familiari trovarono un comune focalizzatore nella sistemazione dell’ospite.
Poiché il ragazzo non poteva farlo, fu il padre a deporlo nella cesta miracolosamente apparsa in un angolo della cucina.
Avvicinando cibo e acqua la madre lo accarezzò :-Riposa sereno, adesso hai una casa.-
Joy invece l’osservò scettico : era un randagio, non sarebbe rimasto a lungo e andava benissimo così. Cenò in silenzio evitando l’argomento“nuovo arrivato” e come sempre salì in camera a studiare. Faticò a prendere sonno e quando finalmente si addormentò fu assalito da inquietanti visioni di cani che al pari di giudici lo condannavano a pene terrificanti. Con la fronte imperlata di sudore e il respiro affannoso balzò a sedere sul letto. Accese la lampada: accucciato sulle coperte Caos lo guardava. Un brivido percorse la mente del ragazzo, il cane sbadigliò distendendosi sul piumone. Interdetto se scacciarlo o tenerlo, rimase a fissarlo fino a che si arrese all’impulso che lo portava a stabilire un contatto fisico. Scivolando dai cuscini, lasciò che il cane gli si accucciasse accanto. Spense la luce e ritmando il respiro al suo quieto alitare chiuse gli occhi.
Lo scoscio della pioggia, il fragore dei tuoni non lo disturbavano: adesso poteva dormire sonni sereni.
Da quel momento Caos elesse domicilio nella sua stanza.
Nelle settimane che seguirono formarono un binomio inscindibile interrotto solo
dalla pausa universitaria e ben presto Joy s’accorse d’attendere con impazienza la fine delle lezioni. Amava particolarmente il rientro a casa: le feste, i mugolii di cui era oggetto lo riempivano di soddisfazione e sebbene davanti ai genitori non lasciasse trapelare nulla, era nel chiuso della camera che ricambiava con carezze su carezze. Venne l’inverno e una domenica il giardino si ricoprì d’un soffice strato bianco, Caos mostrò tutto il gradimento esibendosi in salti e capriole.
Sulla porta Joy l’osservava.
Al pari dei candelotti lucidi e freddi che pendevano dal tetto, la ragione disegnò gelidi arabeschi : la zampa se pur menomata stava bene, e con la guarigione c’era la
possibilità che se ne andasse…

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La mattina della vigilia di Natale, quando aprì gli occhi, Joy trovò il letto vuoto.
Scattò sui gomiti – Caos!!- chiamò attendendo impaziente lo scricchiolio del parquet che preannunciava la sua venuta. Con inquietudine crescente lo chiamò ancora: nessuno varcò trotterellando la soglia della stanza.
In tutta fretta salì sulla sedia a rotelle, prese l’ascensore, spalancò la porta d’ingresso. Piccole inequivocabili impronte segnavano la neve verso il cancello.
Un freddo improvviso gli attanagliò le membra, desiderò trasformarsi in un cumulo di neve: insensibile, gelido.
Con la mente in subbuglio e il corpo granitico rimase sulla suglia fino a che una coperta gettata sulle spalle e la voce del padre lo destarono dalla catalessi.
Con le mani strette intorno alla tazza bevve il tè caldo, poi, senza una parola, si chiuse in camera. Come un proiettore inceppato la mente riproponeva le stesse immagini mentre i ricordi salivano a fiotti tagliandogli il respiro. Voleva gridare, maledire l’ingrato, ma era con le labbra sigillate e il volto impenetrabile che piantato davanti ai vetri, ignorò i richiami del pranzo e della cena.
Nel silenzio bianco della notte d’un tratto lo vide infilarsi stra le sbarre del cancello.
In un attimo fu alla porta. La spalancò: scodinzolante Caos era lì, con quella espressione furbesca e intrigante che gli conosceva bene.
Deciso Joy lo afferrò per il collare. Raddoppiando gli sforzi, con una sola mano diresse la carrozzella fino alla rimessa, l’altra teneva saldamente il cane che si mostrava reticente.
Nel buio della baracca tastò sulla mensola alla ricerca della torcia. Non trovandola optò per le candele che sapeva essere nel cassetto del tavolo da lavoro. Armeggiando con l’accendino riuscì ad accenderne una. Nell’alone fioco il taglia erba, i rastrelli e le zappe gli parvero degni guardiani per l’ingrato fuggitivo. Girò gli occhi intorno alla ricerca d’ una corda, ma l’esigua portata luminosa non gli consentiva di scorgere oltre
il proprio naso. Accese un’ altra candela e poi una terza.
Come se avesse capito ciò che gli stava accadendo, Caos si dimenò.
La rabbia di Joy esplose: con uno strattone lo rincantucciò fra la parete di legno e i sacchi di terriccio, staccò la corda dal supporto e con un doppio giro assicurò il collare a un robusto gancio di ferro. Indietreggiò osservando la propria opera e chiusa
a chiave la rimessa, rientrò a casa.
Ingrato, arrogante randagio, come aveva potuto andarsene e poi avere la sfacciataggine di tornare …Ma adesso avrebbe capito, e per dimostrare chi comandava lo avrebbe tenuto là due notti, meglio tre. Concluse infilando la testa sotto il cuscino. Stizzito si alzò sui gomiti, il cane abbaiava. – Dovevi pensarci prima…- Mormorò stringendo nel pugno la chiave della rimessa.
Passi nel corridoio, qualcuno scendeva rapidamente le scale, poi la voce del padre proruppe in un grido:- C’è fumo nella rimessa, Marisa chiama i pompieri!-
Joy balzò a sedere: rivedeva chiaramente le candele accese sul bordo del tavolo, i
trucioli per terra… La coscienza di non averle spente lo pugnalò con una stilettata al costato.
Mentre il padre con la sistola in mano correva nella neve, Joy comparve sulla soglia di casa.
 La chiave, papà, la chiave!- Il grido si perse nei latrati che insieme al fumo sprizzavano dagli interstizi della rimessa.
Con gli occhi sgranati Joy spingeva le ruote della carrozzina.
In un fracasso di vetri spezzati la finestrella sul lato schizzò in aria seguita da una lingua di fuoco che si allungò come a voler riprenderla. Il padre fece un passo in dietro, Joy lo raggiunse in quell’istante
 La chiave!-
Più acre del fumo , il suo sguardo si posò sul figlio. Impotente lasciò cadere la sistola.
L’eco delle sirene riempì la notte. Con le mascelle serrate il padre corse a spalancare il cancello.
Solo davanti alla rimessa, Joy piantò i gomiti sui braccioli e con l’urlo d’un sollevatore di pesi si mise in piedi. Sotto lo sforzo le braccia tremarono e per una frazione di secondo oscillò cercando di tenersi in equilibrio. Impietrita sulla soglia, con le mani premute sulle labbra, la madre soffocò un urlo. Barcollando Joy raccolse le forze. La mente che aveva tanto osannato si rivelava impotente.
“Muoviti, andiamo, muoviti!”ripeteva a denti stretti. Ma le gambe molli parevano inchiodate al suolo. Di colpo un tam tam sordo gli rimbombò nel petto, riconobbe i battiti del proprio cuore: martellanti crescevano d’intensità sopraffacendolo. Chiuse gli occhi e affidandosi a quel palpito sconosciuto, al pari d’un funambulo, mise un piede avanti bilanciandosi con il braccio contrario, poi fu la volta dell’altro…un passo, ancora uno. Ecco la porta, la serratura, il Clic della chiave che liberava il catenaccio. Spinse le ante, una vampata rossa gli fece perdere l’equilibrio.
Cadde.
Affondò le dita nel terriccio e arrancando come un ragno chinò il capo penetrando nel fumo che asciugava i polmoni e faceva lacrimare gli occhi.
Tutt’intorno era un crepitar di fiamme. Vicine, eppure ovattate dalla fuliggine densa, lingue di fuoco sibilavano sopra la testa. Avanzò fino al centro della rimessa e nel bagliore d’una vampata lo vide.
Joy strisciò sui gomiti, a tastoni trovò la corda, il nodo.
 Via Caos, via!-
Benché libero il cane non si mosse, fissandolo grave gli si accucciò vicino.
Un lembo di tetto crepitante si frantumò a poca distanza. Joy inorridì: Caos aveva deciso di rimanergli accanto.- Vattene!- articolò respingendolo, ma il cane si rannicchiò più vicino. – Testardo d’un randagio, hai deciso di morire?! Non te lo permetterò…-Con uno sforzo titanico si mise su un ginocchio, e passate le braccia sotto il cane lo strinse al petto.
Deglutì, abbassò la testa. Un rantolo lacerò il fumo: senza più fiato Joy era in piedi.
Affiancato da quattro pompieri il padre sopraggiunse all’istante: la carrozzina vuota, la rimessa aperta, il fumo che fuoriusciva lo inchiodarono al suolo. In un attimo il cuore gli saltò in gola: con Caos in braccio Joy usciva barcollando dalla rimessa. Quella speranza agognata e poi dimenticata proruppe in un grido,le braccia al cielo,cadde in ginocchio.
– Tira un bel respiro…Sei in gamba ragazzo, hai salvato il cane. – Disse un pompiere sorreggendolo
Con la guancia lorda di fuliggine premuta sul muso, levò gli occhi- Sbaglia signore… è’ lui che ha salvato me…-

La mente è il cilindro,
il cuore il pistone che spinge e martella…
se c’è una scintilla, s’accende il motore che muove la vita.