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PERCHE’ SI CHIAMA LA CURVA DI CENCIONE

COLLA DI CASAGLIA IL CARTELLO DELLA CURVA DI CENCIONE
venerdì 27 gennaio 2012
Chi percorrendo la strada dell’Alpe di Casaglia, subito dopo il Passo della Colla in direzione Marradi non si è accorto di un cartello, corroso dal tempo, con su scritta una strana dicitura: “Curva di Cencione”? E soprattutto chi non si è domandato, anche solo inconsciamente, il motivo d’essere di quel nome?
I vecchi raccontano che un tempo quel luogo aveva un appellativo venatorio … si chiamava infatti: “Poggetto della Lepre”, ma allora cosa c’entra questa nuova denominazione?

Andiamo con ordine. Presso il Poggio, a Ronta, nel podere di Cicalino, viveva da tempo immemorabile la famiglia colonica Lapi. Verso la metà dell’ottocento Gaspare Vincenzo Lapi decise, dopo essersi comprato un carretto e un cavalluccio, di mettere su una attività in proprio e di iniziare la professione di barrocciaio così da trasportare le merci dalla piana mugellana a quella romagnola.

Gaspare Lapi a causa del suo aspetto florido ma un poco trasandato venne soprannominato fin da piccolo Cencione, e con questo nome era conosciuto da Borgo S. Lorenzo fino a Faenza. Considerato onesto e serio, ben presto si fece un nome e più di una persona si rivolse a lui nei piccoli commerci. Vetturale attento e scrupoloso, consegnava in poco tempo -percorrendo le mulattiere di montagna- le merci nei diversi paesi, ritornandosene a Ronta con considerevoli guadagni.

Così passarono gli anni per Cencione e il suo carretto. Finché un brutto giorno di metà primavera del 1874, proprio dopo l’odierno ristorante della Colla, in direzione di Casaglia, dei viandanti lo ritrovarono disteso ai cigli di una curva ucciso da due schioppettate alla schiena.

Qualcuno saputo che trasportava dei soldi lo aveva ammazzato cercando di derubarlo, furto non riuscito in quanto il denaro venne ritrovato in un doppio fondo delle tasche del povero assassinato.

Anche senza i telefoni la notizia arrivò in un batter d’occhio a Ronta, e subito vennero informati i Carabinieri. La fantasia popolare fece il resto: si parlò di briganti, si accusò il malcapitato di essere un contrabbandiere, gli si attribuirono tradimenti e amori. Le forze dell’ordine si diressero con calma nel luogo del misfatto e i rilievi del caso si limitarono a segnalare la presenza, accanto al corpo esamine del barrocciaio, di un cane scodinzolante di proprietà dei Pieri i quali abitavano in una casa nei pressi del Passo.

Ed è proprio su quest’ultimi che caddero le accuse dell’omicidio del Lapi. I due fratelli Pieri ignari ed attoniti vennero immediatamente prelevati con la forza dalla loro abitazione e condotti in carcere in vista di un infamante ed ingiusto processo di condanna.

Così venne archiviato dalle autorità, con troppa fretta e superficialità, un brutto caso di cronaca nera in Mugello e presto la vicenda passò nel dimenticatoio.
Rosa Bartoloni vedova dello sventurato Cencione assieme ai cognati volle far porre nel luogo della scomparsa del marito un croce di ferro, e una lapide mortuaria sulla facciata della chiesa di S. Maria a Pulicciano – ancora presente- a perenne ricordo del consorte.

Così il luogo di quello strano omicidio iniziò con il tempo ad essere chiamato dai paesani e viandanti “Curva del povero Cencione” per poi diventare con gli anni solamente “Curva di Cencione”.

I fratelli Pieri intanto condannati a trent’anni di carcere passarono i loro giorni alle Murate di Firenze nella vaga speranza che il vero assassino del Cencione venisse scoperto. Solo molti e molti anni dopo, durante una festa paesana a Marradi, un tale da tutti considerato una testa calda, dopo tre o quattro bicchieri di troppo, venendo alle mani con un borghigiano si lasciò scappare una frase che suonava pressappoco così: confessione fatta troppo tardi per salvare dalla mala giustizia i Pieri.
Pier Tommaso Messeri

La Giornata della Memoria. I sei deportati politici marradesi nei lager nazisti. Quattro morirono nei campi

Il documento della Croce Rossa Internazionale di Bad Arolsen su Domenico Vanni
giovedì 26 gennaio
venerdì 27 gennaio celebriamo doverosamente la Giornata della memoria. Marradi Free News partecipa con un ricordo dei sei marradesi internati come deportati politici a Mauthausen. Quattro di loro non sopravvissero alle condizioni disumane dei campi. L’alto tributo di sofferenze e di sangue pagato dai marradesi del passato sia di esempio alle giovani generazioni che hanno il dovere civico di non dimenticare.
L’efferratezza nazista nei lager era accompagnata da un livello di innovazione tecnologica e da una maniacale precisione dei metodi di schedatura dei deportati che non ha uguali. Non c’è deportato politico sul quale i nazisti non abbiano compilato una scheda Personal Karte, assegnando un numero di matricola e che non sia inserito nella Zugangsbaruck registro degli arrivi. E così si è potuto ricostruire, grazie ai documenti del Museo della deportazione Toscana e dell’International Tracing Service della Croce Rossa Internazionale di Bad Arolsen chi furono i deportati politici marradesi a Mauthausen. Nel trasporto n. 53, partito da Fossoli il 21 giugno ‘44 ed arrivato a Mauthausen il 24 giugno ’44, c’erano i marradesi:
Domenico Vanni nato a Marradi il 5 marzo 1889 matricola 76616 Baumeister (capomastro). Antifascista della prim’ora, partigiano arrestato il 25 maggio del 1944 a Mauthausen fino all’agosto del ’44 poi al sottocampo di Peggau. Sopravvissuto
Alberto Ciani nato a Marradi il 5 ottobre 1915 matricola 76295 commerciante. Arrestato il 22 maggio del 1944 poi trasferito al sottocampo di Wiener-Neustad e quindi a quello di Municholz. Sopravvissuto
Armando Visani nato a Marradi il 20 agosto 1918 morto a Gusen il 23 novembre ‘44 matricola 76629 arbeiter (lavoratore).
Claudio Bandini nato a Marradi il 27 luglio 1926 funzionario matricola 76221 da Mauthausen venne trasferito nel Kommando, sottocampo di Ebensee dove morì il 28 aprile ‘45
A Mauthausen era giunto l’11 marzo con il trasporto n. 32 dell’ 8 marzo 1944, Giampiero Verdi matricola 57465 nato a Marradi il 28 giugno ‘23, meccanico, mechanische, arrestato dalla Guardia Nazionale Repubblicana in una retata dopo lo sciopero generale del marzo ’44, internato alle Scuole Leopoldine di Firenze. Da Mauthausen Verdi fu trasferito a Gusen dove morì il 22 aprile ‘45.
L’ultimo dei marradesi deportato in un campo di sterminio è stato Alessandro Pieri, nato a Marradi il 21 giugno 1884, matricola 21774 prigioniero nel campo di Bolzano fino al 5 sett. ‘44 venne trasferito con il trasporto n. 81 a Flossemburg poi ad Hersbruck dove morì il 5 novembre ‘44

La presentazione del libro “Domenico Vanni sovversivo per la libertà” a Marradi, Faenza e Ravenna.

La presentazione del libro a Marradi
Ravenna giovedì 29 dicembre 2011
Sabato 10 dicembre, a Marradi c’erano fra i relatori il Sindaco Paolo Bassetti, la Presidente del Centro Studi Mirna Gentilini, il Presidente del Consiglio Comunale Eugenio Giani, l’onorevole Stefania Fuscagni alla presentazione al Centro Studi Campana del nuovo libro di Rodolfo Ridolfi, il 23 dicembre nella sala verde del Palazzo Comunale di Faenza fra i relatori, insieme al Presidente faentino della Fondazione Free Tiziano Cericola, l’ex Sindaco socialista di Faenza Giorgio Boscherini, l’ex sindaco di Brisighella Vincenzo Galassini, il capogruppo del Pdl a Casola Valsenio Fabio Piolanti, la capogruppo berlusconiana di Faenza Raffaella Ridolfi ed il 28 a Ravenna al Circolino di San Pietro in Vincoli è stato il consigliere regionale del Pdl Gianguido Bazzoni ad introdurre il libro: Domenico Vanni Sovversivo per la libertà edizione Marradi free news. A Marradi in sala alcuni tra i protagonisti delle vicende raccontate nel libro e poi il magistrato fiorentino Giuseppe Buonincontro, il partigiano comunista Giovanni Bellini i famigliari dei deportati a Mauthausen ed il renitente alla leva della Repubblica sociale del 1944 Beppino Ridolfi . La presentazione è stata l’occasione per celebrare Domenico Vanni classe 1889 scalpellino, pioniere del socialismo toscano, consigliere provinciale di Firenze nel 1920, antifascista, partigiano, deportato a Mauthausen, vicesindaco di Marradi nel 1946 socialdemocratico imprenditore a Parigi. Un altro saggio quello di Rodolfo Ridolfi che partendo dal nonno riscrive una parte importante della storia politica ed amministrativa di Marradi fra le due guerre e si spinge fino agli anni 90. Ridolfi ricostruisce inoltre in maniera organica la presenza delle formazioni partigiane nell’appenino, ricorda i martiri e fra questi Bruno Neri, riporta l’articolo di Marino Pascoli sulla Voce del 1947 a proposito dei falsi partigiani e rende onore a tutte le vittime. Nella prefazione si legge:. “Nel libro di Ridolfi c’è la leggerezza incosciente di un Paese che spianò la strada al regime e ne subì passivo le violenze e gli errori. Ci sono quei ragazzi italiani che attraversarono il fascismo come una malattia lunga e dolorosa ma mai mortale, perché la loro fede nella libertà era più forte e un giorno avrebbe vinto. Poi c’è la guerra civile, le atrocità, la ricostruzione vista non in astratto ma nella vita quotidiana dei nostri borghi, distrutti dalle bombe eppure vitalissimi, quasi euforici, ubriachi di democrazia. E c’è il dopoguerra, la ripresa, la crescita, il cambiamento politico e sociale. Ma nel libro di Ridolfi c’è anche altro, qualcosa che scotta e coinvolge subito il lettore: una ricerca di verità che costringe a infrangere molti miti, molta di quella retorica sulla Resistenza che per decenni ha inchiodato l’Italia ad una finzione. Da un lato c’era il Male del fascismo oppressore, dall’altro il Bene assoluto della Liberazione. La Liberazione fu una grande prova di orgoglio e di riscatto nazionale. Ma fu anche la vicenda di un popolo che – magari proprio nella Toscana della vivacissima Marradi o nella Romagna, regioni prima così nere poi d’incanto così rosse – cambiò bandiera per puro opportunismo. Fu, soprattutto, la durissima e sorda lotta fra i liberatori, che proseguì quella combattuta nei tempi dell’esilio e dell’antifascismo letterario ed epistolare. Se negli anni ’20 e ’30 Matteotti, Turati, Gobetti e Rosselli erano fra i principali nemici di Gramsci e di Togliatti, un attimo dopo aver sconfitto il nazifascismo quel conflitto si ripropose con forza, seppur celato dal trionfalismo di un Paese in festa e dalla geopolitica che voleva l’Italia in ogni caso “occidentale” e “americana”. Ben poco emerse, quindi, di un duello cruento che si svolse senza nessuna ribalta, come sepolto e dimenticato. Ben poco restò, nella memoria collettiva, di quel sangue che – per avvicinarci alla formula usata da Pansa, “Il sangue dei vinti” – fu il sangue innocente dei “vincitori”: i socialisti riformisti in primis, ma anche i liberali e i cattolici, che avevano vinto anch’essi la guerra alla dittatura ma furono presto schiacciati dall’organizzazione militare comunista. Una cultura totalitaria non dissimile da quella appena sconfitta, anzi certamente più feroce e determinata. “Mio nonno fu tanto antifascista quanto anticomunista”, dice Rodolfo Ridolfi di Domenico Vanni, e si coglie nelle sue parole un orgoglio trattenuto troppo a lungo, perché nell’antifascismo di maniera i due totalitarismi erano visti come sideralmente distanti. Invece, a creare questa separazione fu solo la tracotanza dei più potenti fra i vincitori che, come sempre accade, riscrivevano la Storia a loro piacimento. La vita di Domenico Vanni, che per l’autore è il punto di incontro di “ricordi, convinzioni ed emozioni”, va quindi oltre la biografia e diventa l’occasione di riscoprire ciò che siamo stati davvero.